Al tempo del coronavirus: OLTRE IL CANCELLO di Maria Velia Lorenzi

 

Entrando, le sembrò di trovarsi lì per la prima volta. Eppure vide quello che aveva sempre visto, in quel disordinato modo di abbandonare le cose non necessarie nel posto nato per rifugiare l’auto e diventato luogo di un ammasso che rende invisibile ogni cosa. Perché ora la stupiva la banana di peluche da appendere a una culla, il monopattino piccolo, la corda per saltare rosa, i libri e i quaderni di scuola che spuntavano da sotto i cappelli da mare e i poster buttati sullo scaffale alla bell’e meglio? Il peso delle cose vissute e non accolte sulla scia del tempo la fece sedere sul panchetto da calzolaio, anche lui lì, solo perché era un’anticaglia.

“Conservare la fisicità delle cose serve a questo?”

La invase una ribellione che le restituì la forza di poter vedere la faccia nascosta di quella luna buia che l’aveva catturata all’improvviso. “Siamo come siamo o come crediamo di essere?”

Oltre il cancello del cortile, il silenzio strano e insolito, diceva cose mai dette prima. Stava per uscire da lì rinunciando a fare quello per cui era scesa, quando un quaderno alto, foderato con carta blu, si rese visibile sotto vecchi giornali. Fu fra le sue mani in un secondo. “Ecco dov’era” disse ad alta voce. Quel diario, prima tralasciato, poi quasi dimenticato, non l’aveva trovato più. Lo aprì quasi con emozione, vedendo le pagine riempite di una grafia precisa, straordinariamente regolare per una scrittura di getto. Quella era davvero una testimonianza viva del suo passato. Si sedette ancora sullo sgabello e, libera dagli impegni pressanti di sempre, aprì il quaderno a caso e si mise a leggere.

“28 aprile 1960

Caro diario,

purtroppo Aprile ci ha traditi. Infatti, non ha portato il sole che prometteva, ma improvvisi annuvolamenti, pioggia e vento. Qui a Pisa, il clima è sempre più mite che in altri posti, ma devo tenere la stufetta elettrica accesa mentre studio. Le scuole stanno per chiudere, i professori ci tengono sotto pressione, e noi siamo stremati. Sono stanca e, in questo momento, non desidero altro che svegliarmi a Giugno, promossa e libera. Un sogno reale, questo ma, povera me, quante cose sogno! Però, come si vivrebbe senza il nostro mondo di fantasia? Senza ideali, senza speranze, senza illusioni, in questo mondo che sarebbe tanto bello come ci è stato dato e che diventa a volte mostruoso maneggiato dall’uomo? So di desiderare cose impossibili, come quella di non rimanere nell’ombra, di fare qualcosa per gli altri, di non rimanere passiva, perché so che per diventare così, occorrono forza di volontà, tenacia, capacità non comuni, insomma cose che non mi sento di avere. Nella realtà, sono un piccolo essere fragile, ma nel mio mondo immaginario, sono tutto quello che desidero essere. Con la mia amica, condividiamo queste cose, ci divertiamo con molto poco a volte. La domenica, spesso e volentieri, passiamo il pomeriggio nel giardino senza studenti e giardinieri. Dovrebbe essere noioso farlo per l’ennesima volta, a piedi da cima a fondo, eppure il tempo vola. La mia amica parla del suo compagno di scuola che le piace e ci raccontiamo i sogni che abbiamo fatto…”

In quel diario, che andava dal giugno del 1959 al giugno del 1961, c’era un mondo che le apparteneva da riscoprire. Solo leggendo dopo tanto tempo quella pagina, tanti ricordi erano riaffiorati nitidi. Il suo immaginare fervido, la sua passione per la lettura, le malattie passate al letto per giorni con la compagnia di un romanzo, la radio sul comodino, i bigliettini scambiati con la sua amica e soprattutto la sua fantasia. Il tempo che non fuggiva, la gente che salutava, il Duomo aperto a tutti, le sere d’estate con i suoi sui gradini della Cattedrale e sul grande prato. Le strade della città tranquille. Tirata giù la serranda, guardò ancora oltre il cancello: ora per la strada non c’era quiete, c’era silenzio. Tutto era fermo sotto il comando secco di un comandante invisibile e al disopra di tutti i dittatori. Sopra i suoi ideali di ragazzina era passato un mondo di ingiustizie sommerse, seminate da qualcosa di invitante da ascoltare, da un paese dei balocchi in cui entrare, dove il mondo della naturale fantasia dei piccoli poteva morire, dove i giovani erano attirati verso il pericolo. Le passarono davanti in un lampo scene di morte, di stragi accadute nell’indifferenza di molti, immagini di bambini passati dall’inferno, dibattiti accesi, duelli verbali di ideologie, teorie sorvolanti sulla sofferenza dei più esposti e fragili, come si sorvola su una mattanza di tonni perché “non se ne può fare a meno”. Nessuno, ora, poteva pensare di viaggiare, divertirsi, fare il suo comodo. Gli uccelli cantavano, le gemme sbocciavano, ma il silenzio dove prima c’era fermento, raccontava una storia mai vista, e mostrava anche la capacità, anche l’eroismo di cui è capace l’uomo, lo stupore doloroso nel vedere come può finire l’esistenza, se non si protegge quella di tutti. L’imparare a vedere quanto il progresso porti l’uomo in alto solo se sa accorgersi della doppia faccia di ogni cosa che arriva a creare. La musica dello smartphone la fece sobbalzare, era una video chiamata. Una di quelle video chiamate che si era adattata a gestire in quella situazione di isolamento forzato. Strisciò in alto e apparve la bella faccia del nipotino che, da quando era nato, non era mai stato così assente dalla sua casa. “Nonna, guarda cosa ho disegnato!” Due cose positive nel dramma: il lato utile di quei piccoli computer portatili che spesso fanno dannare, e suo nipote che si divertiva senza videogiochi. Sorrise e disse al cancello muto: “Forza, ha da passà ’a nuttata, ti aprirai di nuovo sul fermento del mondo”.

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