Al tempo del coronavirus: I NOSTRI VICINI FRANCESI. Sono diventato italiano, quasi

I NOSTRI VICINI   I

Il collega Philippe Junod, mio coetaneo, professore di storia dell’arte all’Università di Losanna e uomo di squisita cortesia, invia agli amici italiani le foto di un articolo recente di un giovane e valente vaticanista francese, Nicolas Senèze, che da quattro anni vive in Italia. Col titolo «Je suis (presque) devenu italien» l’articolo è apparso sul giornale internazionale «La Croix». Lo traduco (in corsivo le parole in italiano nel testo) e lo propongo come toccante segno di affetto. Dice un box: «È paradossale che sia in una segregata Città eterna che egli abbia infine la sensazione di capire veramente il popolo italiano».

Michele Feo

Nicolas Senèze,  Sono diventato (quasi ) italiano

È cominciato venerdì sera, un po’ in sordina, nel mio quartiere a sud del Vaticano. Poi con maggiore intensità il sabato. Alle 18, proprio dopo che le campane di San Pietro avevano rotto il silenzio, le finestre delle case si sono aperte e gli abitanti reclusi da una settimana sono usciti sui balconi a cantare a tutto fiato. Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… Tutta una popolazione in coro per dire che non vuole farsi abbattere dal morbo e che è pronta a fare sacrifici per sconfiggere il contagio. A ben considerare le parole dell’inno italiano, ci si potrebbe sorprendere, soprattutto se si pensa che il governo esige un metro di distanza fra le persone: Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Una provocazione? Macché! Proprio il contrario: direi un tocco di volontà di raccolta di un popolo che si sente unito nella difficoltà.

Dall’inizio di questa segregazione generale imposta il 10 marzo, vedo come questo paese, che si ritiene disordinato e indisciplinato, sappia improvvisamente schierarsi a battaglia contro il contagio. Nella lunga fila davanti al supermercato dove io faccio la spesa il sabato, ognuno osserva scrupolosamente la distanza di un metro – o anche un po’ di più: l’italiano è generoso –, attende pazientemente, e senza tensione, che un cliente esca per entrare a sua volta, fa la sua spesa con calma, con mascherina e guanti dopo essersi lavate accuratamente le mani all’ingresso.

Fretta? Giusto al momento di svuotare il carrello alla cassa, ma è per uscire più alla svelta e far entrare quelli che aspettano. Prima di rientrare ognuno a casa propria per strade vuote e silenziose come mai. Si deve fare lo sforzo di capire quel che questo nuovo stile di vita possa costare a questo popolo così uso al contatto, dove baci e abbracci sono un modo così naturale di salutare anche semplici conoscenti, e dove la strada e il caffè sono luoghi per eccellenza di socialità!

Certo, un po’ di paura c’è, davanti a un’epidemia che sembra fuor di controllo al nord, dove gli ospedali sono scoppiati. Si trema al pensiero che sia toccato il sud, che è meno equipaggiato. Si prega che un amico o un parente non sia fra i 200 o 300 morti al giorno dell’intero paese. Per questo, più che il panico, la vince la responsabilità. E anche l’ironia. Io non conto più i video, i disegni e i montaggi in cui gli italiani si divertono a sbeffeggiare il virus, il contagio, gli arresti domiciliari… e anche i loro stessi difetti. Nei social ognuno ritiene raccapricciante se stesso per il suo individualismo, per il suo disprezzo delle regole, per la difficoltà di trovare un comportamento chiaro, per il proprio eccessivo egoismo. E poi c’è questa segregazione. Sono giorni in cui non si sono più visti né romani né extracomunitari, ma italiani costretti a vivere a casa propria e seriamente compresi della responsabilità di non essere portatori di un virus che può uccidere persone meno protette di loro. Uscire significa esporsi, anzi esporre gli altri, e la parola d’ordine di questi ultimi giorni dice bene questo impegno personale: Resto a casa.

Questo sabato, la sera, sul mio terrazzo, quando il canto degli italiani alle 18 ha preso a risuonare da diecine di finestre, ho sentito improvvisamente quanto condividevo il destino di questo popolo magnifico, che anche nell’avversità – anzi soprattutto nell’avversità – rivelava il meglio di se stesso. Bisognava che arrivasse questa crisi, quattro mesi solo prima del mio ritorno in Francia previsto per giugno, perché mi sentissi un po’ italiano.

«Fratelli d’Italia», ci son voluti quattro anni perché mi sentissi uno di voi: perdonatemi per aver messo tanto tempo per capirvi veramente. Ma, dopo tutto, è nella miseria che si conoscono i veri amici. Segregato come voi, non ho altro che la penna per scrivervi, in attesa dei giorni in cui potremo nuovamente parlarci faccia a faccia, davanti a un caffè, e a meno di un metro. Sarà allora il tempo di lasciare l’Italia, di lasciarvi. Ma mai dimenticherò questi momenti in cui sono (quasi) diventato italiano. Allora fra le mie braccia, amici miei: Baci e un caloroso abbraccio a tutti voi!

(da La Croix, 21 marzo 2020)

 

2 Commenti

  1. Grazie, grazie per il sentimento profondo che traspare nel Suo scritto. Mi sento di abbracciarLa, anche se virtualmente, ma con affetto e amicizia sincera.
    Germana Pallecchi

  2. Senza nulla togliere ai bei pensieri e agli ottimi sentimenti qui espressi, mi confesso un po’ scorato dal ricorso al paradigma nazionale di fronte a una tragedia così semplicemente, così universalmente umana. A lungo ho vissuto in Francia – paese che amo, letteratura che venero: mai mi ha sfiorato il pensiero che, per sentire mia la sofferenza di un mio simile, occorresse (quasi) diventare francese.

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