Francesco Colonna, Facciamo la festa al padre

A metterlo bene in chiaro, prima dell’anno mille, fu Burchardus, vescovo di Worms, che collezionò in ordine alfabetico molti brocardi latini, che prendono nome proprio da quell’ecclesiastico. Tra i tanti, vi è anche quello che così recita “Mater semper certa est pater numquam”. Che non è un bell’inizio per concepire l’idea della parola “padre”. Un brocardo che, quando la scienza lo ha permesso, ha scatenato una ridda di richieste della prova genetica di paternità, con sorprese sgradevoli, visto che il 10 per cento non corrisponde. Tralasciando che molti sostengono che quella percentuale andrebbe raddoppiata.

Una parola sciagurata, padre. Minata all’origine, trae il suo significato dal sanscrito, nel senso di proteggere, nutrire. Tuttavia una parola di successo. Il Padreterno, il Santo padre, il padre (prete), il padre della patria, il padrino, il padre della medicina, o della psicanalisi o di altra scienza, il bonus pater familias, il padre padrone o altro. Con l’ansia però di non esserlo. Le religioni e le società sono ossessionate dal dubbio, dal timore che si interrompa a favore di un altro quel ramo lungo il quale discende la specie. Donne segregate per millenni pur di evitare rischi. Si sono anche create tante leggende sulle cinture di castità inventate, ma non pare sia vero, dai crociati viste le lunghe permanenze a Oriente. Per curiosità, la prima di cui si abbia conoscenza è a Gottinga, è un disegno del XV secolo ed è definita “congegno fiorentino”. Bisognerebbe scoprire perché…

Una ossessione animale prima che umana. Solo che nell’homo sapiens ha preso forme psicanalitiche, ben più profonde, in forma di terrore, con annesse reazioni inconsulte. La bizzarria del delitto d’onore rispondeva proprio a questa volontà primordiale (non sconfitta dalla modernità) di continuare la specie. Poi è arrivata la scienza a scompaginare un poco i criteri: tra spermatozoi pigri o assenti ha inserito un’altra idea di paternità. Non più biologico genetica, ma educativa: i figli sono di chi li tira su. Con tutti i drammi delle adozioni e i susseguenti, eventuali, ripensamenti di uno o di due genitori. E, comunque, nella cultura nostra i figli sono innanzi tutto della madre, o i diritti morali sono identici anche per il padre? E chi, moralmente, dovrebbe decidere un aborto? La scarsa partecipazione del maschio alla creazione di un figlio, un volta persa (quasi) l’animalità, è diventata un problema. Perché tutto è filato liscio o quasi finché la dimensione fisica del maschio ha garantito un controllo sociale forte sulla donna. E, a parte qualche raro caso di matriarcato, le regole sono state sempre di tipo virile, fondate soprattutto per evitare il tradimento. Salvo qualche caso.

Come quello che si racconta a Firenze (esistono libri in proposito). Mentre la famiglia reale si trovava alla Villa del Poggio Imperiale, vi fu un incendio nel quale morì l’erede. Allora, per la ragion di Stato, fu sottratto un bimbo di pari età al macellaio della via Senese, alle falde del poggio. Di qui la corporatura del tutto diversa di Vittorio Emanuele II rispetto ai longilinei regnanti Savoia. Chiacchiere, leggende ma buone per chiarire il concetto. Diciamo quindi che l’Italia sarebbe stata unita dal figlio di un macellaio sotto mentite spoglie di re. Con buona pace della paternità e della linea di discendenza. Violando così il cinico principio del drammaturgo inglese Joe Orton che diceva: “Tutto ciò che ci si può attendere da un padre è che sia presente al tuo concepimento”. Perché, questa è la realtà, i padri a differenza delle madri non hanno mai avuto bella stampa a favore. Anzi, i peggiori hanno sempre fatto aggio sui decenti (e anche sui migliori). La mamma è sempre la mamma: e il padre? E pazienza per la radice sanscrita con la protezione e la nutrizione. Mica poco. Ma il costume sociale non bada alle etimologie.

Il padre, con l’avvento della contemporaneità, ha perso anche la qualità mitologica nella famiglia e nella società. “Vedrai che ti succede quando torna il babbo”, oppure “Questo meglio non dirlo al babbo, altrimenti…”, “A tavola stai composto, perché il babbo vuole figli educati”. In realtà spesso questo Bau Bau era una invenzione della mamma per controllare i figli più agitati e meno rispettosi. Ma il fatto restava chiaro: il Babbo era un concetto divino. Giudicava, condannava, assolveva, puniva, perdonava, segnava la diritta via, pretendeva un futuro dai figli, imponeva scelte (specie alle figlie): una via di mezzo tra il dittatore e il deus ex machina, tra il buon pastore e l’angelo vendicatore. Terribile. Tralasciando l’uso delle mani, della cinghia, delle sere senza cena (di rigore la mamma vivandiera di nascosto) e il divieto di vedere gli amici per un tempo X, prolungabile o riducibile a seconda dell’umore.

Tutto questo è finito. L’autorità paterna ha fatto una brutta fine. Soppiantata dall’autorevolezza e (peggio che mai) dall’esempio. Quindi quelle tracce di diritto implicito al rispetto, contenuto nelle regole sociali, si stanno cancellando. La famiglia verticale, monolitica, autoritaria cede il posto a quella orizzontale (o quasi), allargata, pseudo democratica. E sono sparite quelle frasi dal suono anacronistico, tipo “Fai così perché lo dico io”. Magari lo fanno, ma non con timore reverenziale, ma con rancore e spirito di rivalsa. E in questa transizione (in realtà ogni giorno è di transizione) si trovano molti, gli ultimi, che sono stati educati da vecchi padri che ancora cullavano l’illusione di un ruolo segnato e voluto dal Cielo. Mentre a loro tocca inventare per sé e la società un ruolo nuovo, anche come marito, nel quale sono la stima raccolta, il senso di giustizia, il potere della mente a disegnare il ruolo e a imporre la figura. Qualcuno, per farla franca con poche rogne, la butta sull’amicizia e si gioca la guida e la capacità di aiutare nella formazione della mente e del carattere. Oppure si fa ambizioso perché il figliolo ottenga tutto quel che lui non è riuscito a ottenere. Oppure aggiunge con preoccupante frequenza la frase fatidica “per il tuo bene”. E ovviamente si potrebbe continuare. Un padre dovrebbe evitare i luoghi comuni, peraltro pessimamente frequentati.

Vista così, la cosa è parecchio complicata, arzigogolata, che necessita di studi approfonditi prima di cimentarsi in qualcosa di più di una semplice presenza al concepimento. Così molti si avvinghiano a quella frase che recita: per guidare un’auto ci vuole una patente, e niente per fare il padre. Ma non ha senso. Per l’auto c’è una tecnica e un codice da rispettare. Mentre per un figlio è diverso. La madre per averlo per sé deve tagliare un cordone ombelicale. Mentre il padre ha bisogno di costruirne uno, e per di più senza darlo a vedere.

E, francamente, quella di Giuseppe non appare una gran figura di padre, spiazzata e oscurata dalla Madre. Dice: ma no, non era un vero padre, era un tutore, un padre putativo o qualcosa del genere. Va bene. E allora perché festeggiamo la festa del padre (inventata negli Stati Uniti, West Virginia, del 1908) il 19 marzo proprio per San Giuseppe? Poi non ci si può lamentare se i nostri figli da ragazzini vanno a far polemica con i saggi del tempio, o cose simili. Pensate se Adamo e Eva avessero avuto dei padri umani: quando mai avrebbero assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza? Invece senza guida quotidiana hanno creato un bel movimento. Ma è giusto tutto questo dir male dei padri che, nonostante il loro impegno a essere tali, godono spesso di pessima immagine? Invece forse aveva ragione Friederich Nietzsche che diceva: “Se non si ha un padre, bisognerebbe procurarsene uno”. Che meraviglia le contraddizioni umane.

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