Gianni Mura PIU’ A MISURA D’UOMO, intervista a cura di Mauro Giani

Gianni Mura, il nostro amico generoso e sapiente, è morto.

Per il Grandevetro ha scritto molti articoli

ed è stato puntualissimo giurato del Premio Pannocchia.

Ricordarlo ci piace con questa bellissima intervista

sullo sport, sugli uomini, sulla libertà. Addio, Gianni

 

Al Vecchio Porco è un ristorante bello e discreto, nascosto nella Chinatown milanese. Il risotto del Vecchio Porco è squisito e non potrebbe essere altrimenti, l’ha scelto Gianni Mura. Peccato che qui non ci sia anche Sergio Pannocchia. Queste sono proprio le cose che gli piacevano, una buona tavola e intorno gli amici ideali. Quelli generosi e sapienti, sempre pronti a dare una mano al Grandevetro. Gianni come al solito non si tira indietro, parte e ci racconta.

Bene, incominciamo. Cos’è lo sport?

Una parola universale e quasi omnicomprensiva si dice sport in tutte le lingue tranne che in spagnolo, dove deporte è molto più vicino all’origine latina, passando per il francese se désporter, cioè tirarsi fuori, fare altro. Lo Sport è una parte dell’attività umana che va dalle Olimpiadi o dai Mondiali di Formula 1, parlo dei picchi, alla gara di corsa campestre per ragazzini in un paese o anche alla gara di bocce tra i pensionati. Quindi per tentare una definizione direi che lo sport è un’attività fisica che può essere competitiva e non competitiva, le regole sono stabilite prima. Può essere competitiva al massimo ed essere fatta anche semplicemente per mantenersi in forma, le passeggiate, andare in bicicletta, fare ginnastica, tutto questo è sport. Sport è quello che ferma una nazione quando ci sono le finali del campionato del mondo di calcio. Sport per molti è solo il calcio, ma non è vero. Lo sport è una cosa che si fa da quando si è in grado di correre direi. Se pensiamo ai primi giochi che fanno i bambini, credo li facciano ancora, non so: rialzo, bandiera. Sono dei giochi che prevedono un minimo di corsa e di destrezza. Anche il gioco a nascondino, per esempio, può essere considerato un antenato dell’orienteering, che va tanto di moda oggi. Data una definizione tecnica e omnicomprensiva su che cos’è lo sport si potrebbe passare a che cosa rappresenta. Che cosa rappresenta per due categorie di persone: quelli che lo praticano e quelli che lo guardano, che sono in maggioranza. Anche tra quelli che lo praticano lo spazio è enorme. Per persone come Bolt, Cristiano Ronaldo, Tiger Wood o Raikkonen si tratta di una competizione spinta, di vertice, che è anche un lavoro. È uno sport che diventa lavoro, con il quale si guadagnano parecchi soldi. Ovviamente questo è lo sport di cui si riempiono i principali mezzi di comunicazione. Parlo di giornali e televisioni. Più uno sport è popolare e più ha sponsor, più è ricco e più è seguito. Tanto è vero che alcuni sport olimpici non dai tempi di De Coubertin, ma dai tempi di Pindaro, per esempio il sollevamento pesi, sono stati praticamente cancellati dalle Olimpiadi, perché non importa niente a nessuno di vedere dei signori che tirano su dei bilancieri, emettendo degli strani versi. Quello sport non è televisivo e quindi è morto. Per molta gente lo sport invece è altro. A volte dico che il monumento allo sportivo ignoto sarebbe quello di fotografare un signore qualunque che alle sei di mattina o alle sette e mezzo di sera vediamo correre lungo la provinciale in tuta o pantaloncini corti, che ogni tanto consulta il cronometro e che per l’età, pensiamo, non gareggi certo né per un campionato nazionale né tantomeno per le Olimpiadi. Però lo fa, lo fa e in questo caso gareggia contro se stesso. Gli psicologi dicono, infatti, che una delle cose più importanti che derivano dall’attività sportiva è la conoscenza di se stessi, del limite, della capacità di sofferenza al dolore o alla fatica, alla fame o alla sete.

 Ti posso interrompere? Tu hai scritto delle cose molto belle su Pietro Mennea e hai toccato un aspetto dello sport di cui non si parla molto, l’ascesi.

Sì, tra i campioni che abbiamo avuto, Mennea è forse uno dei più mistici, per il suo modo di vivere lo sport che è essenzialmente sport uguale a sacrificio, sport uguale rinuncia, sport uguale allenamenti tutti i giorni, tranne forse Natale, ma di sicuro l’ultimo dell’anno. Sport come isolamento, perché, non dimentichiamolo, tutti pensano al record di città del Messico, che ha resistito, un grandissimo record. Ma per me la grandezza di Mennea è data da cinque Olimpiadi. Cinque Olimpiadi vogliono dire che per venti anni un uomo segue questa linea ascetica o fachiresca come hanno detto altri, comunque di grande privazione perché lo arricchisce. Questa apparentemente sembra una contraddizione. Però, siccome oggi nello sport è entrata una parola che io detesto ed è motivazione, ci sono anche gli specialisti, i famosi mental coach, secondo me chi fa sport è già sufficientemente motivato di per sé. Comunque dicevo le motivazioni di Mennea. Durare venti anni in uno sport, non l’equitazione, lo sprint, che ti richiede tutto sotto il profilo fisico, vuol dire avere delle motivazioni enormi e vuol dire avere anche dei valori. Mennea è anche uno dei pochissimi campioni che abbiamo avuto su cui tutti quelli che l’hanno conosciuto escludono che possa mai aver fatto uso di doping. E quindi, a modo suo è stato un esempio, un esempio però molto difficilmente uguagliabile. Perché? Perché alla fine se ne era accorto anche lui, perché i tempi sono cambiati. In un’intervista data a Emanuela Audisio di Repubblica un anno prima della prematura morte, disse: “Io mi sono accorto che tutti i valori per cui io ho gareggiato oggi non contano niente, perché questa società non li ritiene né indispensabili, né necessari”. Quindi era un propagandista d’idee morte. È stato un campione scomodo perché aveva un carattere non facile, perché vedeva nemici dappertutto e in gran parte ne aveva. Ma anche perché una volta smesso di gareggiare si è laureato, ha scritto dei libri, ha fondato una Onlus. Era un italiano esemplare per certi versi e per molti altri un italiano atipico che non voleva sconti, che non voleva l’aiutino, che non lo cercava neanche. Ed è stato così onesto da scrivere e da dire nelle interviste che una volta a Los Angeles ci aveva pensato, perché vedeva tutti quelli che aveva battuto che andavano più forte di lui ed era arrivato fino all’anticamera di uno di questi santoni bombardieri e poi all’ultimo si era tirato indietro, non aveva voluto saperne. Ha anche ammesso la tentazione, questo per dire com’era profondamente onesto Pietro Mennea.

Parlando con gli istruttori dei settori giovanili si ha un quadro abbastanza triste della situazione, perché all’ideologia ascetica o al concetto di sacrificio come strada per vincere si è sostituito quello dell’aiutino. L’aiutino in molti casi, è chimico. E questo va inquadrato in un contesto generale secondo me. Che nello sport ci sia sempre stato il doping è probabile. Ci sono testimonianze per esempio nei Tour degli anni Venti di corridori che usavano la cocaina per sopportare le fatiche. Secondo Gianni Brera Dorando Pietri all’Olimpiadi di Londra del 1908, quando ha incominciato a vacillare aveva probabilmente sbagliato la dose di stricnina. Anche Coppi pare abbia preso un po’ di stricnina prima del record dell’ora in tempo di guerra al Vigorelli. Quindi, diciamo che la pozione magica, quella di Asterix c’è sempre stata in certi sport. A volte era un bottiglione di vino rosso, a volte erano le trenta uova che si fece fuori Alfredo Binda in un giro di Lombardia che vinse con trenta minuti sul secondo. Uova sia sode sia in frittata, preparate dalla sorella e messe nei panini, sia bevute fresche. Se oggi si va da un dietologo dello sport a parlargli di trenta uova in mezza giornata, chiama l’ambulanza. Ma allora c’erano queste cose, come c’erano ai tempi in cui ho incominciato io a seguire lo sport, cioè a metà degli anni ’60. Solo che il doping oggi è un’industria per buona parte in mano alla malavita. È un’industria che si è sempre più evoluta e il doping di adesso è molto pericoloso, ti fa anche morire, ti riduce il sangue in pappa, devi prendere dei coprenti, dei diluenti. E questo succede in un mondo che ha perso la cognizione del pagare di persona o del sacrificio, che una volta, o tu parlassi con Mennea o parlassi con Gimondi o con uno sciatore, c’era. Quest’ultimo quarto di secolo è il periodo dell’aiutino, perché siamo una società farmaco dipendente, perché c’è la pillola per dormire e quella per stare svegli, c’è la pillola per fare all’amore, c’è la pillola contro l’angoscia, c’è la pillola per dimagrire, ma anche quella per ingrassare, c’è tutto. E questo è il vero pericolo dello sport, anche a livello giovanile. Perché poi saltuariamente leggiamo alcune notizie. Una era toscana, di un paio di anni fa, ed era di uno zio che al nipote di tredici anni che correva in bici aveva fatto un cocktail di doping e bibite gassate. Il ragazzo ha avuto un collasso in corsa.

 Poi c’è l’altra delle droghe.

Quella economica, certo. Sono legate. Mario Fossati, il grande giornalista scrittore di ciclismo, infatti, già trenta anni fa mi ricordo che diceva: “Se prima di una corsa io mangio un panino con la mortadella e tu un filetto alto tre dita per me è doping, se tu per vincere guadagni mille ed io cento, per me è doping”. Il doping non è solo la siringata, è tutto quello che altera. La regola base dello sport, non l’hanno ancora cambiata per iscritto, è quella che si parte tutti uguali, che detta così, oggi, sembra un po’ una presa per il culo, come “La giustizia è uguale per tutti”. Sono quelle frasi che ti restano dai tempi di scuola come “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, io direi “sfondata” o “affondata”. Però, perché lo sport dovrebbe, uso il condizionale, crescere dei cittadini migliori? Perché lo sport, qualunque sport, ha delle regole e ha degli avversari e tu devi imparare a vincere o a perdere nel rispetto delle regole e degli avversari. E se ci riesci, anche se non vinci, lo sport ha già esaurito una funzione importante, quella di farti crescere.

Dal mio punto di vista, da addetto ai lavori, c’è anche un altro grande cambiamento. Quando io ho incominciato, bastava scrivere in un italiano decente e conoscere bene lo sport di cui scrivevi e lì finiva. Non ho mai considerato lo sport una cosa isolata dal mondo. Per fortuna mia, perché poi ho incominciato a dovermi occupare di violenza, cioè di cronaca nera, di razzismo, di doping, di bilanci. Sullo sport è piovuto quello che forse inizialmente non c’era. Oggi nello sport puoi trovarci dei grandi motivi di solidarietà, di vicinanza, di apertura, come dei grandi motivi di frizione, di odio e di guerra. Personalmente trovo avvilente vedere scortati dalla polizia i pullman delle squadre quando vanno allo stadio, in un paese civile questo non dovrebbe succedere. Se non li scortano, può succedere di tutto.

 E i tranquilli cittadini tacitamente accettano che lo stadio sia un porto franco, dove si può dire di tutto.

Esatto. Non solo è accettato da persone come te, ma se parli con uno psicologo, un sociologo, ti dicono meno male che questa violenza riesce a uscire, finché si mantiene a livello verbale. Non sono d’accordo. Ritengo che la violenza a livello verbale sia sempre e comunque violenza e quindi da condannare. A Firenze si continua con i trentadue morti dell’Heysel come del resto la parte peggiore dei tifosi della Juventus ha usato Superga. Nessuno è innocente.

C’è stato poi lo spostamento dell’interesse sul corpo dell’atleta, ipersponsorizzato, ipertatuato. Tu spesso citi una frase di Galeano su “i mendicanti di bellezza” ma la bellezza che questi mendicano è quella del gesto non del corpo dell’atleta.

Io cito Galeano, prima di tutto perché mi piace molto, lo cito per il fatto che ormai la bellezza si debba mendicare, essere una minoranza che dà ancora importanza alla bellezza, che non è la bellezza del corpo, ma è la bellezza del gesto, verissimo, tanto è vero che molti campioni non erano belli. Maradona era uno scorfano, come diceva Brera, un divino scorfano. Aveva dei gesti calcistici, a parte la mano, di una bellezza assoluta. Come tanti altri. Coppi era brutto davvero giù di bicicletta, era tutto gambe, con uno sterno che andava in dentro, quel naso lungo, ma una volta sulla bici era perfetto. Era una macchina da bici, ma giù dalla bici non era assolutamente niente di speciale, come non lo era Bartali. Bartali di speciale aveva la forza di volontà, che era una cosa spaventosa. Ma nessuno ha mai chiesto a Bartali di essere bello. Come nessuno l’ha mai chiesto, che ne so, a…

 Pantani?

Pantani stesso non era bello, sembrava un quasi pensionato. Uno di quei bambini invecchiati precocemente.

 Mi sembra che tu abbia un po’ di pudore a parlare di Pantani.

No, ne ho parlato e scritto moltissimo. Ho anche pensato di smettere di fare il giornalista dopo Campiglio perché non ho mai ricevuto tante lettere, messaggi, da gente, che in modo anche educato, non tutti insultandomi, dicevano: “Adesso come la mettiamo, proprio tu ci hai insegnato ad amare Pantani”. Ho attraversato dei giorni nel dubbio, sentendomi responsabile. Poi ne sono uscito. Da un certo punto di vista non bene, perché adesso io vado al Tour e scriverò con il freno a mano tirato e per certi altri, sapendo che questa è la realtà del mio mestiere, che noi dobbiamo uscire tutti i giorni e che camminiamo su una crosta molto sottile. Se Tizio o Caio sono positivi, lo sappiamo dopo cinque giorni o dopo cinque mesi e nel caso di Armstrong dopo sei anni. E allora il rischio nostro è di passare o per complici o per coglioni. Non è concessa una terza via: o tu lo sapevi e non lo hai scritto o tu eri lì e non hai capito niente. Noi come giornalisti non possiamo fare le analisi chimiche né possiamo fare le intercettazioni telefoniche. Siamo nelle condizioni di un cronista che prende atto che un ministro è in galera perché c’è un magistrato che l’ha inchiodato su una bustarella. Non possiamo scrivere prima. Oppure possiamo scrivere in modo velato: prestazione talmente sorprendente che desta qualche dubbio. Possiamo ragionare in base ad una media oraria, alla potenza sprigionata in salita, ma non possiamo dire Pantani o chiunque si droga se non abbiamo nessuna pezza d’appoggio. Io di quello che ho scritto su Pantani quando vinse il Tour non rinnego una virgola. In quel momento Pantani passava tutti gli esami antidoping ed era negativo, impazzivano anche i francesi per lui, impazzivano tutti, impazzivi anche tu probabilmente.

 E Ivan della Mea, ci inviò una poesia, fu un insolito editoriale del Grandevetro.

Come fai a non impazzire, ma io avevo la pelle d’oca quando Pantani faceva certe cose.

 Quando incominciava a spogliarsi?

Sì, lui aveva la teatralità dell’attacco e si spogliava. Infatti, una volta scrissi “Se potesse, correrebbe nudo e forse si scuoierebbe pure, come il San Bartolomeo di Marco d’Agrate nel Duomo di Milano”. E poi quando lo trovi uno che ti dice: “Vado forte in salita per abbreviare la mia agonia”.

 Lo disse a te?

Sì, me lo disse, al telefono.

 Nello sport, come in tante altre cose è arrivata l’esagerazione, come nella parlata dei politici.

La parlata dei politici ha preso molto dalle curve degli stadi. Dove la cosa più gentile che possono dire a un altro è bastardo. Apparentemente, ne parliamo il martedì dopo le elezioni, questa strategia dell’urlo e dell’insulto non ha pagato molto, dico Grillo.

Ha pagato però la velocità. Sia Renzi sia Grillo sono velocissimi.

Il motto delle Olimpiadi è citius altius fortius, più veloce, più in alto, più forte, secondo me, non so come si dica in latino, ma non sarebbe nemmeno una brutta propaganda per lo sport trasformarlo in meno veloce, meno alto, meno forte, ma più a misura d’uomo. Quello che poi in termini sociali è crescita e decrescita, sono fast food e slow food. Non dico niente di nuovo.

Dal telefono di Gianni è uscita una voce lontana, era Yves Montand in Le chant de la libération. Dopo abbiamo continuato a parlare, impossibile trascrivere tutto: la strumentalizzazione politica fin dai tempi del sommo poeta Pindaro, il bieco nazionalismo, con il rinnovato culto della bandiera e poi Ivan della Mea, un amico in comune, imbattibile a scopa, cantore e cronista di una Milano che non c’è più, immaginato incazzatissimo, a piedi, tra i nuovi grattacieli grondanti di corruzione, e poi di nuovo Bartali e poi Martini il saggio di Sesto Fiorentino, che a Natale regalava ai giornalisti Il Capitale di Marx e alla domanda di Gianni Mura su che parola pensasse se gli si diceva bicicletta, rispondeva: “Io penso alla parola libertà”.

(dal Grandevetro 220, maggio-giugno 2014)

1 Commento

  1. Pienezza di vita, l’amore per la vita, di cui lo sport è una delle espressioni. Forse espressione privilegiata, dove le relazioni umane si manifestano in tutte le loro pieghe. Senso profondo del rispetto anche degli avversari (da cui tanto avrebbero da imparare i giovani genitori che tifano smodatamente e aggressivamente per i figli in campo…), gioia dell’amicizia nella semplice convivialità..Insomma, lo conoscevo per sentito dire; adesso Gianni Mura lo sento amico, molto amico.

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