Giulio Rosa, Ce lo chiede l’Europa

L’espressione “Ce lo chiede l’Europa” è utilizzata indifferentemente da chi propone misure europee indigeste e da chi manifesta la propria avversione all’istituzione europea. Ma quale Europa ce lo chiede? Quella degli apprendisti stregoni che attivano processi incontrollabili? O quella immaginata a Ventotene e realizzata dai fondatori, superando lacerazioni storiche? I due schemi interpretativi sono correlati e forniscono risposte di contenuto diverso, perfino opposto. Quello che importa è individuare l’origine politica delle attuali scelte europee, indagando sul processo storico che le ha prodotte, nelle sue componenti geopolitiche, economiche, culturali, sociali. Che si accettino o si rifiutino, per le attuali politiche dell’Unione e dei singoli paesi vale la domanda: com’è potuto succedere? Certo è che dal tempo dei trattati di Roma molto è cambiato, non solo nella dimensione e nella struttura comunitarie, ma soprattutto negli orientamenti della politica e nella percezione dei cittadini. Occorre cercare i punti di discontinuità che hanno generato la crisi attuale.

 Confini d’Europa

È questione controversa, addirittura, la definizione geografica dei confini europei. Per non dire delle nazionalità, delle lingue, delle culture, delle religioni. Converremo che stiamo parlando della attuale Unione Europea nel suo divenire storico, dall’epoca dei Trattati di Roma fino ai giorni nostri. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, possiamo considerarla dentro o fuori, tanto è una storia vecchia di secoli. Dal tempo del Vallo di Adriano i Britannici, o meglio gli Inglesi, si sono allontanati o avvicinati a loro piacimento. Business as usual. Il dato certo è che, noi continentali, dobbiamo a loro tutta la nostra gratitudine per come si sono regolati durante la Seconda Guerra Mondiale. È scritto nella storia che il sacrificio e il sangue dei Londinesi, con quelli dei cittadini di tutto il continente, stanno tra le ragioni fondanti del Progetto Europeo. Winston Churchill era stato tra i primi sostenitori della necessità di procedere a qualche forma di integrazione forte tra gli stati dell’Europa occidentale. La sua ispirazione risiedeva nelle ragioni esposte a Fulton, non propriamente coincidenti con quelle del Manifesto di Ventotene. Nonostante quest’impulso forte, il Regno Unito è rimasto sempre euroscettico, entrando tardi nella Comunità e negoziando continuamente condizioni borderline. Fu Lady Margaret Thatcher a lanciare le politiche economiche neoliberiste le cui conseguenze attuali hanno spinto, pare inconsapevolmente, la maggioranza dei cittadini britannici a votare la Brexit. A questo proposito, è stupefacente che Theresa May, da premier, abbia escluso la naturale approvazione parlamentare per intraprendere l’uscita dall’Unione, cioè per denunciare un trattato internazionale. Quest’ultima vicenda mostra la natura della crisi istituzionale, politica e culturale che sta investendo l’Europa: il passaggio dalle democrazie parlamentari ai governi con poteri rafforzati, basati non sulla rappresentanza politica dei cittadini ma sul plebiscito delle masse. Accadendo nel paese che ha tracciato la strada per i regimi liberaldemocratici, la cosa preoccupa.

 La nascita dell’Unione

I Trattati di Roma costituirono il punto di convergenza di flussi politici, economici e culturali storicamente complementari. Nell’Europa devastata e insanguinata dalla guerra, si era sviluppata l’idea che il Continente dovesse diventare un’area di pace e prosperità, superando contrasti nazionalisti millenari, in un contesto di benessere diffuso, sociale ed economico. I movimenti europeisti più convinti erano radicati in Italia, Francia e Inghilterra, in vario modo orientati verso un modello federalista, più o meno forte. Nel Regno Unito, già durante la guerra, Churchill aveva incaricato il futuro Lord Beveridge (un liberale) di redigere il Report che avrebbe costituito l’atto più significativo del welfare britannico. Nella stessa fucina liberale inglese (anche se in un altro reparto) si era forgiato J. M. Keynes, padre e propulsore del pensiero economico che sta alla base dello Stato del Benessere, variamente applicato e nominato nei diversi paesi europei. Fin dagli anni Trenta, in tutta l’Europa si andava diffondendo, con varia intensità, il modello di economia capitalista che, fermi i rapporti di produzione, con le politiche salariali distribuiva i redditi attribuendo a un vasto segmento di popolazione la possibilità di vivere dignitosamente, fino ad accantonare risparmio, e poi li ridistribuiva con politiche economiche di spesa per i servizi sociali (sanità, scuola, pensioni). Nei piani dei sei Stati Fondatori, la creazione di una zona di cooperazione e libero scambio rafforzato, avrebbe dovuto consentire ai paesi aderenti di concorrere nei mercati planetari con una forza totale maggiore della somma delle parti. Una spinta, probabilmente decisiva, alla riuscita del progetto, venne dal contesto geopolitico successivo a Yalta. Churchill aveva intuito che alla pressione politica, militare e ideologica dell’Unione Sovietica occorreva opporsi con progetti concreti, di ampio respiro e convincenti, in grado di mobilitare sul piano ideale le élite, i gruppi dirigenti e i popoli dei paesi dell’Europa occidentale. In questo quadro, l’America fin dal 1946 era stata disponibile a favorire il processo unitario, rafforzandolo con l’avvio del Piano Marshall e il varo del Patto Atlantico. È importante osservare che, nell’ambito della strategia di contenimento dell’espansione sovietica, questo assetto dell’Europa sarebbe stato essenziale per risolvere la questione tedesca, nel senso di contrastare l’evoluzione della Germania verso un regime di tipo sovietico. Si può ragionevolmente pensare che, nel disegno di Churchill, l’integrazione della Germania in una struttura istituzionale e politica continentale ne avrebbe contenuto anche eventuali orientamenti espansionistici. Questa preoccupazione, condivisa fino agli anni Novanta da molti governanti europei, fu fatta propria dal Cancelliere Kohl quando dichiarò, costituendo la nuova Germania e partecipando alla fondazione dell’Unione, di aspirare a una Germania europea e non certo a una Europa tedesca. Dopo settanta anni dalla fine della guerra e venticinque dalla costituzione dell’Unione, la questione tedesca è ancora al centro della crisi europea.

 I principali connotati della prima Europa

Nel corso di tutta la prima fase della costruzione europea, gli indirizzi istituzionali e politici dei singoli stati europei attingevano e traevano origine dalla propria storia, risultando anche contrastanti in maniera significativa tra i diversi paesi. Significativi, in questo senso, le scelte nazionali di politica estera e di difesa. Questo fatto continua a caratterizzare l’Unione, costituendo esso stesso un fattore di crisi. Per quanto riguarda le politiche economiche, in particolare per quelle di spesa sociale, i paesi democratici europei seguivano criteri e disegni legislativi omogenei, anche se con tempi e modalità di attuazione diversi, adottando autonomamente il modello che caratterizzò la Golden Age del capitalismo liberaldemocratico internazionale, fatto proprio dai governi che si succedevano, con le proprie connotazioni ideologiche: socialdemocratiche, cristianosociali, conservatrici. Tra gli elementi che accomunarono i padri fondatori e i loro paesi, fu determinante la consapevolezza di: a) dover superare le spinte egemoniche nazionali che, dopo secoli di sanguinosi contrasti, erano sfociate nella tragedia delle due guerre mondiali; b) dover garantire nell’area europea occidentale regimi politici solidamente liberaldemocratici e rappresentativi di tutte le componenti sociali; c) dover adottare politiche economiche improntate al welfare state. Un approccio programmatico dettato dalla storia che, pur con tempi di sviluppo diversi e contraddizioni interne a ogni paese, caratterizzò le politiche comunitarie e nazionali dai Trattati di Roma, agli anni Settanta, al Trattato di Maastricht. Questi elementi avevano trovato dignità solenne anche nei testi delle nuove carte costituzionali. Nel corso dei primi decenni della storia comunitaria, l’opinione pubblica dei singoli paesi aderì con maggiore o minore convinzione all’idea unitaria. Comunque, nella coscienza civile delle popolazioni, era accettato il progetto di un continente pacificato, retto da principi umanitari, con un benessere diffuso. La mitezza che improntava prevalentemente le opinioni pubbliche europee derivava dalla memoria dei massacri delle guerre, di condizioni di vita miserabili, di regimi politici soffocanti e dalla consapevolezza del miglioramento generale postbellico. Infine, occorre sottolineare un fatto fortemente connotante dell’Europa delle origini: la qualità delle persone che concorsero a fondarla. In primo luogo i politici che si sono succeduti nel cinquantennio postbellico, con le loro grandezze e miserie, in percorsi storici accidentati, contraddittori e drammatici, con culture politiche diverse. Oggi è sotto gli occhi di tutti la realtà del crollo di qualità del personale politico europeo.

 Il consolidamento della prima Europa

I due decenni che vanno dai primi Settanta al Trattato di Maastricht furono caratterizzati dall’adozione di trattati interni finalizzati alla costruzione di una legislazione e di una struttura burocratica, basilari per l’assetto e il funzionamento di una comunità sovranazionale, che furono il risultato di laboriose mediazioni tra interessi divergenti, nazionali e tra settori produttivi, con soluzioni di compromesso o dettate dai rapporti di forza. Nei primi anni di quel periodo gli assetti geopolitici e geoeconomici planetari furono sconvolti, tra l’altro, da avvenimenti che influirono direttamente su quelli europei: la fine del dollar standard, la normalizzazione dei rapporti degli USA con la Cina Popolare, la guerra del Kippur. L’onda lunga da essi originata produce i suoi effetti sulla crisi attuale dell’Unione. La Comunità crebbe ma, alla luce degli accadimenti successivi, possiamo dire che non si sviluppo’ in senso concretamente federalista né produsse strutture comunitarie e anticorpi culturali, concordemente idonei a reggere l’urto degli squilibri sistemici di questo ultimo quarto di secolo. L’istituzione del Parlamento Europeo costituì un significativo progresso strutturale, anche se l’organismo era inizialmente privo di poteri reali. Tra i Settanta e gli Ottanta fu lanciato il Sistema Monetario Europeo e fu liberalizzato il mercato dei capitali, nella prospettiva di un futuro assetto comunitario di cambi stabili. Lo SME (al quale, per un certo periodo, aveva aderito persino il Regno Unito) conobbe varie crisi, ma dopo un quarto di secolo dal primo tentativo, si sarebbe consolidato nell’Euro. Coerentemente con il quadro di libero scambio di merci e capitali e di libera circolazione dei cittadini, nel 1985 fu firmato l’Accordo di Schengen, che ebbe attuazione in tempi molto lunghi. Il fatto istituzionale probabilmente più significativo in senso federalista si è dimostrato il più faticoso da realizzare e il primo a essere investito dalla crisi di questi ultimi anni. Tra il Trattato di Roma del 1957, che aveva istituito il MEC e il Trattato di Maastricht del 1992 che istituiva l’Unione Europea, il numero dei paesi membri era salito a dodici. I Dodici partecipavano alla costruzione di un sistema complesso e articolato che, basato sul mercato unico, progettava una moneta unica e la libera circolazione di persone e merci, allargando la prospettiva unitaria a molteplici elementi della struttura sociale e civile, oltre che economica, degli stati. Nel biennio che precedette il Trattato di Maastricht, la questione tedesca determinò, ancora una volta, la direzione futura del progetto europeo: la caduta del Muro, vera immagine metaforica della fine del blocco sovietico, portò in pochi mesi all’unificazione delle due Germanie e all’accordo sulla moneta unica. Le leadership degli altri paesi europei accettarono con riluttanza il piano di unificazione proposto con determinazione da Kohl e Genscher e, al Consiglio di Dublino dell’aprile 1990, i Dodici avviarono i progetti di unificazione politica e monetaria che contemplavano l’annessione alla Repubblica Federale dei länder orientali. La Germania scambiava l’assenso alla propria espansione a est con l’ancoraggio al marco delle altre monete europee.

 I fondamenti della nuova Europa

A Maastricht inizia il percorso che avrebbe dovuto condurre l’Unione, non più solo Comunità di natura economica, allo stadio di istituzione sovranazionale, comprensiva degli stati nazionali. Nei tre lustri che portano al Trattato di Lisbona (dicembre 2007), oltre la routine di innumerevoli accordi e direttive sugli innumerevoli aspetti della vita degli stati e delle cittadinanze, l’Unione si è spesa principalmente nel tentativo di pervenire a una Costituzione Europea, nell’adozione di una moneta unica, nella definizione e nella costruzione di strutture di governo e amministrazione dell’istituzione unitaria. Il fallimento del progetto costituzionale rappresenta il punto di svolta nella storia della costruzione europea, almeno per la parte istituzionale. A dire il vero, se si esclude la Carta dei Diritti Fondamentali, i testi via via proposti non erano scritti per scaldare i cuori dei popoli, con la loro struttura da testi unici. Affogati in un mare di protocolli di funzionamento e di normative commerciali, i diritti non riuscirono a emergere e a farsi apprezzare dalla ben pasciuta opinione pubblica. L’adozione dell’Euro e l’istituzione della BCE e degli altri enti monetari e bancari ha costituito un risultato insospettabile, dati i tempi difficili in cui è avvenuta. Si è trattato probabilmente di un effetto inerziale, l’ultimo ottenuto sulla spinta della prima Europa. Naturalmente Il Regno Unito non ha aderito, con il proposito dichiarato e scritto di non aderirvi mai. Le criticità per le istituzioni monetarie sono venute nel tempo principalmente su due fronti: la governance e, ovviamente, le politiche adottate. Per il primo, che ha caratterizzato la fase iniziale, le motivazioni furono sostanzialmente di natura nazionalistica e di primogenitura; per il secondo, nei recenti anni di acuta crisi economica e finanziaria, assistiamo al confronto, a volte rude, tra impostazioni nazionalistiche ed egemoniche e scelte tecniche orientate alla stabilità finanziaria dell’intera eurozona. Per quanto riguarda la politica fiscale, i paesi dell’Unione (con l’esclusione di Regno Unito e Repubblica Ceca) hanno stabilito nel 2012 un Patto per il Bilancio (Fiscal Compact) che prevede l’abbattimento del deficit annuale e un drastico piano di rientro dal debito. In un periodo di bassa crescita e bassa inflazione, si tratta di un inasprimento feroce delle politiche fiscali che si potrebbe teoricamente realizzare optando tra l’incremento delle entrate tributarie e la riduzione della spesa pubblica. Considerato che gli ultimi anni sono stati caratterizzati da modestissimi incrementi (o da decrementi) dei redditi nazionali, il Patto ha funzionato con effetti recessivi; inoltre, considerato che le politiche fiscali hanno operato nel senso della riduzione della spesa sociale e le politiche tributarie hanno sfavorito i ceti medi, il Patto ha amplificato il fenomeno dell’impoverimento generalizzato a favore dell’arricchimento di pochi felici. Negli anni da Maastricht a oggi, con i progressivi aggiornamenti dei trattati fino a quello di Lisbona, l’Unione si è data una struttura di governo e amministrazione degli affari europei. Il Consiglio Europeo, costituito dai capi di stato e di governo, è l’organismo di indirizzo politico, dove si definiscono gli orientamenti strategici e le politiche generali, sulla base del confronto/scontro tra paesi, cioè dei reciproci rapporti di forza. Ne è membro anche il presidente della Commissione Europea, la quale costituisce il braccio esecutivo e propositivo dell’Unione, oltre a sovrintendere la gestione della complessa macchina comunitaria. I funzionari apicali di questo apparato, la vera e propria tecnocrazia europea, sono praticamente designati dai governi, in virtù della propria capacità di influenza. Attualmente la struttura direttiva degli organi comunitari è largamente occupata da personale indicato dalla Germania. Siamo al punto. L’Europa che dispone o chiede non è un ente astratto, estraneo ed esterno rispetto agli stati nazionali: i governi nazionali nominano i commissari dell’organismo esecutivo e propulsore, e partecipano direttamente a quello di indirizzo politico. È del tutto evidente come gli indirizzi politici europei dipendano dalle dinamiche tra i governi nazionali, ognuno con la propria connotazione politica, oltre che dal peso relativo, economico e politico, dei rispettivi paesi: si può dire che i rappresentanti naturali dei cittadini europei, per incidere sulla politica dell’Europa, sono i propri governi.

 Gli anni della crisi. Cosa ci chiede Bruxelles

Nella prima decade del secolo una decina di stati, già appartenenti al blocco sovietico, chiesero e ottennero di aderire all’Unione. Nel tempo, l’allargamento ha indebolito la struttura della costruzione unitaria, su tre pilastri fondanti: la maturità e l’omogeneità dei regimi economici, il funzionamento e le logiche dei processi decisionali, la cultura europeista e comunitaria. Quest’ultimo aspetto non è marginale o puramente sovrastrutturale, avendo costituito per decenni uno degli elementi di coesione politica tra i governi e i cittadini dell’Unione. I comportamenti politici dei governi e gli orientamenti delle opinioni pubbliche di quei paesi si sono dimostrati opportunistici sul piano economico ed egoistici su quello delle relazioni comunitarie. Le politiche reazionarie che nell’ultimo decennio si sono palesate in alcuni di essi si pongono in esatta contraddizione con le motivazioni fondanti dell’Unione. Nel solco di una mainstream le cui origini più prossime affondano nei primi Settanta, si è andato affermando un modello socioeconomico contrario, rispetto a quello della Golden Age. Il paravento macroeconomico per la nuova politica fiscale è stato fornito dalla crescita degli indebitamenti pubblici e dalla prolungata crisi finanziaria internazionale. Questi fattori hanno giustificato l’adozione di politiche fiscali strutturalmente recessive, per quanto riguarda il volume dei redditi nazionali, e regressive sul piano tributario, incidendo direttamente o indirettamente sui redditi netti della maggioranza delle popolazioni dei singoli stati. Per quanto riguarda i redditi distribuiti, si è allargata la forbice tra gli estremi, con quello inferiore che attrae la fascia intermedia, con un effetto a catena stimolato dalla caduta dei livelli di occupazione. Fenomeno quest’ultimo indotto: a) dalla delocalizzazione dei siti produttivi verso altri continenti, verso gli stessi nuovi paesi comunitari o in paesi contigui dell’Europa orientale; b) dalla ristrutturazione del mercato del lavoro nel senso della precarizzazione dei rapporti contrattuali. Coerentemente con le politiche di taglio della distribuzione primaria dei redditi, si sta agendo con politiche fiscali di erosione progressiva della spesa sociale. Quest’ultimo fenomeno, peraltro, non è uniformemente diffuso, dipendendo dalla profondità delle strutture di welfare esistenti nei diversi paesi e dai margini consentiti dai saldi di bilancio nazionali. Gli stati con economie più forti possono momentaneamente permettersi politiche di coesione sociale più generose. Lo stato del benessere diffuso non costituisce più un elemento strutturale per la crescita delle economie, ma una regalia principesca concessa al popolo, sovente a spese di altri popoli. Il risultato si pone, ancora, agli antipodi dei principi fondanti dell’Unione. Nel passato quindicennio questo modello e i suoi presupposti teorici si sono progressivamente imposti nei corpi politici e governativi dei paesi europei e negli organismi di governo comunitari, in un processo di mutazione genetica che ha coinvolto la maggior parte delle correnti politiche e culturali, senza distinzione di origine storica. Si è trattato di un processo egemonico dapprima culturale, da parte delle scuole di pensiero neoliberiste, e poi politico, facendo fulcro su un paese fondatore, mutato con la riunificazione del Novanta. Evidentemente la pulsione egemonica della Germania, sedata per mezzo secolo, è riemersa. In questo quadro la proposta di Bruxelles, che esprime la posizione attualmente maggioritaria tra i governi aderenti, si limita all’ambito primigenio, quello socioeconomico, mostrandosi incapace di proporre soluzioni sui mutamenti epocali che determineranno il suo esito vitale. Il modello esclude qualsiasi ipotesi mutualistica fra i paesi, per lo stock del debito e i piani di investimento, e prevede riforme per la demolizione dello stato sociale e la caduta dei diritti del lavoro. Mentre scriviamo si parla di un allentamento delle rigidità fiscali, mantenendo dritta la barra sulla necessità delle riforme strutturali. In questi termini la sostanza non cambia. Le migrazioni epocali dagli altri continenti, e anche quelle interne alla nuova Unione, ne stanno sconvolgendo assetti che sembravano consolidati. Nel continente impoverito dalle politiche impropriamente dette di austerità, venendo meno il collante del benessere diffuso, cancellati i valori fondanti comunitari, i rapporti tra i paesi dell’Unione si inveleniscono e si imbarbarisce la cultura dei popoli, interessando significativamente anche i paesi economicamente più solidi. La xenofobia è l’espressione della paura di perdere benessere e identità. D’altra parte la politica europea ha perso da tempo il significato e il senso dei valori fondanti dell’Unione. Quelli che, se uno non ce li ha, non può darseli; figurarsi proporli agli altri. È lontano il tempo in cui l’Europa dei paesi fondatori sospese la domanda d’adesione della Grecia dei militari golpisti, quelli che avevano bandito Aristotele. È drammaticamente lontano anche il tempo in cui i paesi dell’Unione sospesero le relazioni con l’Austria, emarginata per avere al governo un partito su posizioni razziste e xenofobe.

 Dunque?

I presupposti della vicenda unitaria europea stanno in tanti luoghi: a Ventotene, ad Auschwitz, a Coventry, a Dresda, nelle filande inglesi e nelle miniere gallesi dell’Ottocento, ad Atene (allora e ora), a Roma: ci siamo intesi! Seguendo i fili conduttori del nostro racconto, ne troviamo gli esiti avvilenti. La questione tedesca è irrisolta. Le politiche della Germania hanno prodotto un risultato quantomeno contraddittorio: la lacerazione bellica e postbellica spinsero il progetto europeo iniziale; la caduta del Muro e la riunificazione lo hanno portato all’acme; l’egemonia economica di oggi lo sta sfigurando. Lo stato del benessere diffuso è oggetto di sistematica destrutturazione. È vero che il benessere europeo aveva un costo elevato da qualche altra parte del pianeta; è giusto che la ricchezza delle nazioni si distribuisca meglio. Ma è questo che sta avvenendo? Sicuramente in Asia, per dire, centinaia di milioni di persone si nutrono grazie a una diversa distribuzione internazionale del lavoro. Il fatto è che ai muri verticali che dividevano i popoli si sta aggiungendo una nuova cortina di ferro orizzontale che attraversa trasversalmente i continenti separando la maggioranza delle popolazioni da oligarchie economiche transnazionali. L’opinione pubblica europea, denutrita dei valori e della conoscenza dei padri fondatori, è preda dell’aggressione di demagoghi opportunisti, variamente dissimulati. Qui abbiamo indicato gli elementi della crisi europea, divaricati rispetto a quelli del progetto comunitario iniziale. Con l’ottimismo della volontà possiamo dire che, per la ricostruzione dell’Europa si dovrebbe attingere allo schema politico, economico e culturale della fase fondativa: sfortunatamente e per fortuna, con le differenze del caso, in qualche modo si può fare. La ragione del pessimismo sta nella vacuità di tecnocrazie europee irresponsabili e nella bassa qualità delle leadership nazionali, incapaci di visione e di governo verso il futuro.

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