IL CONTAGIO DELLA LEGITTIMA DIFESA di Giuseppe Faso

“Legittima difesa” è una delle espressioni di origine giuridica entrate nella lingua comune. Come per analoghe locuzioni, ciò ha comportato un indebolimento della stringenza tipica del linguaggio giuridico, e ha dato luogo a usi traslati, a volte creativi, più spesso opachi e ripetitivi.

Non sarà incongruo in questa sede accennare ai processi di banalizzazione nella riduzione dei significati, dei principi e dei concetti per adattarli al senso comune più piatto.

C’è, intanto, il rischio di una riduzione per incomprensione, simile a quella che avviene dal latino giuridico o della messa al linguaggio quotidiano. Trasferito in una collina toscana, una delle usanze che mi ha colpito riguardava il ricorso all’istituto dell’usucapione da parte di contadini i cui terreni confinavano con quelli di proprietari lontani generazioni, spesso trasferiti in America nel primo Novecento. Il termine astruso era slittato nel più acquisibile “a uso copione”, con un’interessante attribuzione di senso, che proiettava in quel “copione” la produzione di carte necessarie perché il notaio concedesse l’acquisizione di proprietà su un terreno abbandonato.

Si rischia di scivolare nell’aneddotica antivillanesca; ma si può evitare il sarcasmo di chi, rilevando simili usi della lingua, esibisce distinzione e superiorità sociale riconoscendo l’inventività, spesso ilare e ironica, e l’efficacia cognitiva e comunicativa di questi slittamenti: come quando, come ci ricorda Alessandra Ballerini, gli immigrati chiamano “foglio vai via” il “foglio di via” delle questure.

La pretesa di distinzione sembra garantire l’accesso a sfere meno basse della società a chi adopera certe formule giuridiche, non da esperto, senza analizzarle. Lo si sente già nella pronuncia. Si tende a non dire legittima difesa senza calcarne la dimensione formulare, e perciò andrebbe virgolettato. Parlando di “legittima difesa” non si vuole infatti problematizzare sulla legittimità morale o civica dei modi di difendersi, ma solo invocare le attuali leggi per trovarvi uno spazio da praticare: è una morale da azzeccagarbugli. E, come in quel romanzo, il confronto porta non a una discussione partecipata sui principi e le regole del vivere civile, ma a una reiterazione delle gride. Le quali, mentre in Manzoni sono ridicolizzate come segno di inefficacia, potrebbero invece essere ricondotte, seguendo un acuto spunto ermeneutico di Foucault, a quel grottesco che è «uno dei procedimenti essenziali della sovranità arbitraria». La sovranità squalificata, in Shakespeare, si ricopre d’infamia; e l’Ubu re del teatro di Jarry, come il Mussolini della realtà storica, proprio in quanto dimostrazione clownesca dell’indegnità del potere, manifesta l’inevitabilità del potere (Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collége de France 1974-1975, Feltrinelli, pp.22-23).

Per cogliere la funzione di ribadimento del senso comune e di anestetizzazione del pensiero della locuzione “legittima difesa”, basterà spostare l’aggettivo; se si proclama una difesa legittima, infatti, si incrementa la responsabilità predicativa di quel “legittima”, che ne risulta devirgolettato: non si tratta più di un modo di dire, ma di una affermazione, un giudizio di cui ci si prende la responsabilità. Tutti abbiamo competenze su questo scarto di significati, quando scegliamo tra “un uomo buono” e “un buon uomo”, tra “una donna bella” e “una bella donna”: giudizi responsabili, i primi, modi di dire poco impegnativi i secondi, e acquiescenti nei confronti della chiacchiera quotidiana.

Alla chiacchiera e alla conversazione, che è un luogo deputato di preservazione di rappresentazioni di senso comune, appartiene la discussione sulla “legittima difesa”: la cornice (il frame) in cui si cerca di ingabbiarci muove da una rappresentazione fuorviante e falsa della cosiddetta “sicurezza” verso obiettivi politici aberranti. Si vuol convincere il cittadino (addomesticato nelle sue percezioni da anni di uso emotivo di notizie di cronaca nera, riguardanti soprattutto la microcriminalità) della necessità di difendersi anche con le armi, e oltre le soglie già alte previste attualmente per la “legittima difesa”; e si adibiscono a clava categorie come criminalità, sicurezza, immigrazione, il cui uso difficilmente troverebbe giustificazione se si volesse comprendere alcunché di non fantasmagorico. Dalla lettura di un buon libro di criminologia o di sociologia sull’immigrazione si esce con disagi cognitivi nei confronti delle etichette che si cercava di comprendere: criminalità, immigrazione: perché tali categorie appartengono a un discorso pubblico incapace di indicare strade percorribili. Frequentare la nozione di sicurezza può condurre solo a insicurezze epistemologiche, o, per chi ha bisogno di non nutrire dubbi, al panico morale; ed è stato mostrato da tempo come questo sia l’obiettivo di alcune agenzie politiche, che costruiscono il panico come un dispositivo di trasformazione dell’insicurezza di origine esistenziale e l’incertezza cognitiva in allarme per la mancanza (presunta) di sicurezza personale.

Per una difesa legittima – dal panico morale, dal grottesco del potere, dalla sua presunta insormontabilità, e in fin dei conti dal senso comune, acquietato nei suoi allarmi proiettati all’esterno – sarà bene rifiutare le categorie che strutturano le rappresentazioni di senso comune della realtà. Pensare non significa pensarla come x, o y, ma lasciare aperto il dubbio sui risultati stessi della propria riflessione, pronti ad arricchirla di nuove domande. Pensare un pensiero già pensato, come scriveva in un romanzo Paolo Nori, non è pensare.

Le certezze di cui si ha bisogno per costruire ragionamenti e operare scelte sono lontane da quelle di senso comune, la cui caratteristica fondamentale è la negazione del suo essere un insieme di interpretazioni costruite della realtà. Proprio chi insiste sulla presunta differenza di chi sarebbe determinato dalla sua cultura d’origine non vede quanto le sue stesse posizioni siano storicamente costruite, e, finché non se ne accorge, fa dipendere i suoi comportamenti da strutturazioni sociali che non essendo né universali né eterne non gli permettono di comprendere quanto gli viene incontro nell’esperienza di un mondo complesso.

L’uso più frequente di “legittima difesa”, come si può constatare adoperando un motore di ricerca per vagliare espressioni che lo contengono, appartiene a dispositivi conversazionali che giustificano i mezzi scelti (per difendersi) con il fine (che sarebbe, appunto, legittimo). Lo si dice spesso per scherzo, ma a volte sul serio, come, in queste ore, in un video “virale” sui social. La ragazzina sarda che si fa un selfie con un ministro, e gli sibila: «Merda letale», ha dato luogo a una serie di interventi a difesa, non infrequentemente pronti a giustificarla in nome della “legittima difesa”. Ma c’è un errore, un cedimento in questa giustificazione: come se il male compiuto da quel ministro (sulla cui azione è ragionevole ammettere che sia davvero letale) potesse giustificare la deumanizzazione cui rimanda l’uso di degradare a feci una persona. Chi scivola in un insulto deumanizzante non va giustificato adducendo l’insopportabilità delle azioni della persona insultata, perché nulla è più contrario ai diritti individuali della giustificazione dei mezzi in nome di fini superiori. È anzi questo il terreno in cui il male provocato da chi ha potere si perpetua, imponendo un “frame” argomentativo in cui chi ha diritti da difendere è destinato a perdere. Se non fossimo travolti in cornici culturali di livello basso, scelte da chi prevarica, ci ricorderemmo delle parole di uno che su queste cose ha ragionato in maniera acutissima: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi». Questo ci potrebbe aiutare a capire, oggi, Manzoni: che l’elemento più letale nell’azione di alcuni potenti è il contagio.

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