LA GIOIA DEL VIAGGIO – Intervista a Alberto Cancian di Manila Novelli

“Non si è mai contenti dove si sta”

Il piccolo principe, Antoine de Saint Exupéry

 

Viaggiare è una delle attività umane fondamentali antropologicamente connessa al bisogno di scoprire habitat più confacenti ai propri bisogni e a soddisfare la curiosità, caratteristica innata nell’essere umano; rappresenta un’esperienza cruciale che consentendoci di superare i limiti del consueto ci mette in contatto con realtà nuove e perciò affascinanti, offrendoci l’opportunità di arricchire e ampliare i nostri orizzonti. Esperienza tanto significativa da avere da sempre ispirato artisti, penso alla Zattera della Medusa di Théodore Géricault e L’imbarco per Citera di Antoine Watteau, e scrittori, penso a opere divenute pietre miliari della letteratura come l’Odissea, la Divina Commedia o l’Ulisse di James Joyce, che poi altro non è che l’Odissea, rivissuta a Dublino in 24 ore da Leopold Bloom moderno Ulisse.

Un tempo il viaggio delle persone semplici era dettato dalla necessità o dalla devozione, emblematico in questo caso è il percorso da Canterbury a Roma denominato “Via Francigena” pieno di rischi e di pericoli che non rappresentava certo un momento di svago, mentre solo i benestanti potevano permettersi viaggi culturali e di piacere come il “grand tour”. L’epoca moderna poi vede i propri albori nei viaggi di scoperta dei “nuovi mondi”. Vi sono poi viaggi avventurosi alla ricerca di sé stessi come i voli di Antoine de Saint Exupéry, o estremi come quello di Chris McCandless di Into the wild, vissuti come una sfida ai propri limiti e portati alle estreme conseguenze. Però c’è una netta divisione che distingue i viaggiatori animati da genuino senso della scoperta e dell’avventura e perciò desiderosi di immergersi nelle particolarità locali dei luoghi visitati, dai turisti che si spostano per puro divertimento e dovunque vadano non fanno altro che ricercare comodità e piacevolezze che li facciano sentire a casa propria, ciò che rende il loro spostarsi niente altro che un’ esperienza di puro divertimento sempre uguale a se stessa. L’odierna società di massa poi ha realizzato la possibilità di rendere abbordabile per tutti l’esperienza del viaggio, sotto svariate forme e con le più diverse motivazioni. Scambi attraverso il progetto Erasmus per giovani studenti più o meno squattrinati, gite organizzate, crociere su navi a dimensioni condominiali, scambio di ospitalità, offerte last minute, ve ne è veramente per tutti i palati e per tutte le tasche. Bastano la determinazione e poche centinaia di euro per lasciare le quattro mura di casa e vedere con i propri occhi luoghi sconosciuti.

Che l’istinto del viaggio sia insito nella mente umana inoltre è stato confermato dalla genetica che ha localizzato di recente nel gene DRD4-74R la base dell’istinto del viaggiare e la causa della “sindrome del viaggiatore”. Da qui prende l’avvio il libro The journey of joy di Alberto Cancian, un viaggiatore convinto e degno di essere conosciuto per la sua originalità. Defniito da Licia Colò, che ha curato la prefazione del suo libro, “portatore sano di positività”, Cancian ravvisa un genere veramente singolare di viaggio, il “viaggio per gioa”, dichiarando di essersi mosso spinto dalla propria innata voglia di viaggiare a scoprire nuove realtà, e così facendo ha trovato il “supermercato della gioia” nel cuore della foresta Amazzonica. Ho potuto conoscerlo grazie alla presentazione che Folco Terzani ha fatto del suo lavoro durante un evento pubblico e venire a conoscenza così della singolarità della sua visione.

The journey of joy è il racconto di un’esperienza in America Latina nelle missioni IMC, di cui ha curato la ricerca storica, a contatto con i nativi e con la loro cultura.

Come è iniziato il suo percorso e come è nato il libro?

Nel 2011 mi trovai ad assistere alla cerimonia di consegna di una Cittadinanza Benemerita al mio paese. Dell’onorificenza veniva insignito padre Bruno Del Piero, un missionario del paese che aveva donato cinquant’anni della sua vita alle missioni dell’Istituto Missioni Consolata nell’Amazzonia colombiana. Conoscevo già di fama quella persona ma, quel mattino, il suo carisma e la sua serenità, mi colpirono profondamente. Rappresentava per me una leggenda, come lo erano anche i suoi luoghi di missione, quel polmone verde che desideravo raggiungere fin da bambino. Dopo la laurea decisi quindi di raggiungere quel missionario, di volare in Amazzonia. Partii nel 2012 e per circa tre settimane visitai le missioni colombiane dell’Istituto con padre Bruno. L’esperienza fu intensa e ricchissima, tanto che al mio ritorno decisi di scrivere il mio primo libro, Colombia. Viaggio, di vita, un piccolo diario di viaggio che raccontava quell’avventura. Due enti del paese coprirono le spese di stampa e quanto tornò padre Bruno, in ottobre, presentammo il libro e consegnai a lui tutto il ricavato delle vendite. A quel punto, l’Istituto missionario torinese, visto che mi piaceva scrivere, e che avrei accettato di vivere in Amazzonia, cosa non scontata sia dal punto di vista sociale che sanitario, mi propose di trasferirmi nelle missioni per scrivere la storia inedita dell’opera di missione della Consolata nell’Amazzonia colombiana. Dopo aver accettato, fra il 2013 e il 2015, vissi prima sei e poi sette mesi in Colombia, visitando le missioni della giungla, sperdute fra gli affluenti del Rio delle Amazzoni. Da quella lunga esperienza che mi cambiò la vita nacque La Misiòn. Storia dell’Istituto Missioni Consolata in Caquetà e Putumayo. Quei due anni erano stati talmente intensi e il cambiamento in me così radicale, che nel 2016 decisi di partire per una nuova avventura, questa volta attraversando l’Asia in solitaria, dall’Indocina all’India, dal Subcontinente indiano all’Himalaya. Al mio ritorno sentivo la forte esigenza dentro me di condividere tutti i segreti che il mondo mi aveva svelato in quegli anni di viaggio e iniziai a scrivere un libro, il cui titolo era venuto a me in una visione durante un ritiro di meditazione in un monastero buddista sulle colline di Kathmandu. A metà del lavoro capii che quel libro andava diviso in due e, nel gennaio 2019, pubblicai The Journey of Joy ‒ Amazzonia, il racconto di un viaggio profondissimo nei meandri del Pianeta e dell’animo umano, un libro nato come un figlio, con lo scopo di condividere un messaggio che viene dal cuore e al cuore vuole arrivare. Ora sto lavorando alla seconda parte della storia, il racconto di un nuovo viaggio, per dare al mio terzo libro suo fratello.

Durante il soggiorno in Colombia lei mette spesso a confronto i due punti di vista del missionario e dell’antropologo laico. Quanto le sembra possano essere conciliabili?

Ritengo che questi due stili diversi di missione debbano assolutamente convivere. Fortunatamente, dopo il Concilio Vaticano II, l’approccio missionario è cambiato globalmente e, anche se già in molti luoghi il rispetto dei missionari per le culture che incontravano era totale, dopo il Concilio questo è divenuto l’approccio unico alla missionarietà. Infatti la grande ricchezza del genere umano è la conoscenza che la specie ha prodotto nei diversi contesti ambientali nei quali si è sviluppata. Questa ricchezza della diversità è quindi culturale, ma anche religiosa e spirituale. Sarebbe quindi un danno disperdere qualsiasi tipo di conoscenza sviluppatasi nei secoli; anche se, in realtà, tutte alla fine portano ad una sola meta. Ogni percorso di crescita interiore è infatti indirizzato a un unico traguardo, che è lo star bene, globalmente. Per fare questo la via è una, e qualsiasi tradizione se ne è fatta portavoce: incarnare l’Amore, null’altro, perché qui è già tutto.

Lei afferma di essere partito per voglia di conoscenza e per soddisfare il suo gene DRD4-74, ma anche di dovere tutto a padre Bruno ed ai missionari. Cosa potrebbe consigliare a chi non abbia la sua stessa opportunità?

Credo che in fondo tutti abbiamo le stesse opportunità, perché le vere opportunità, quelle che ti cambiano la vita, non hanno bisogno che di un cuore che sa amare e ricevere amore. Il nostro compito è quello di trovare in noi il cor-aggio di cogliere le opportunità che la vita ci presenta. Ho messo il trattino nella parola cor-aggio per sottolinearne l’etimologia latina. Il vocabolo deriva infatti dalla locuzione corde agere, che significa: agire con il cuore. Ecco, se noi sapremo agire con il cuore, riusciremo a vivere tutte le opportunità della vita e la vita come una grande opportunità.

Lei definisce la sua esperienza in Colombia una lezione di vita. Può spiegare in poche righe il senso di fondo di questa lezione?

I mesi vissuti in Colombia hanno completamente cambiato la mia quotidianità, hanno cambiato le mie prospettive, il mio modo di pensare, hanno fatto vacillare le mie certezze e ne hanno rafforzato altre. Questi, in realtà, sono i risultati che ogni viaggio vissuto in profondità consente di realizzare su se stessi. È per questo che ritengo la mia esperienza in Amazzonia una lezione di vita: perché ha saputo cambiarmi nel profondo. Vivendo quell’esperienza mi sono dato l’opportunità di farmi travolgere e sconvolgere dal mondo. Ed è proprio quando ci si lascia andare completamente, affidandosi totalmente, che si cresce veramente.

La sua affermazione “dobbiamo lottare per vivere un’esistenza che ci permetta di fare ciò per cui siamo portati, che ci consenta di mettere le nostre capacità al servizio della vita che vogliamo, non la nostra vita al servizio di una realtà che non ci piace”. Può essere considerata il messaggio centrale del suo libro? Lei cosa consiglia a chi volesse raggiungere questa consapevolezza?

Certo, quest’affermazione può considerarsi uno dei messaggi principali di cui si fa portatore il libro. Anche qui ci si riferisce al cor-aggio di riuscire a realizzare se stessi, la propria propensione, di mettere a frutto le proprie doti e le proprie abilità. Questo è indubbiamente uno degli ingredienti per vivere una vita felice. Bisogna trovare in noi la forza che ci consente di mantenerci saldi nei nostri principi, che ci consente di navigare contro corrente, sbattendo contro gli scogli di chi non è riuscito o non ha voluto realizzare tutto questo. La consapevolezza sta dentro di noi; spesso un viaggio è lo strumento che ci consente di andarla a scoprire, ma ci sono altre milioni di forme per farlo, ciò che conta è non aver paura. La paura è proprio il contrario del coraggio, la paura ci limita, ci blocca, ci trattiene dal raggiungere la meta, il coraggio invece ci sostiene e ci eleva verso la meta finale. Alla fine, anche dopo aver risposto alle domande di questa intervista, mi accorgo che effettivamente c’è un messaggio centrale in questo libro, di cui il concetto appena trattato fa parte, ed è l’Amore. L’Amore è il centro di tutto.

Quindi possiamo concludere che “il viaggio della gioia” si intraprende per curiosità ma anche spinti da un genuino sentimento e ci offre l’opportunità di gidere appieno la propria esperienza.

 

 

 

 

 

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