LA SALUTE MENTALE IN TOSCANA di Kira Pellegrini

Dal punto di vista teorico e normativo i servizi per la salute mentale toscani sono orientati alla centralità e soggettività della persona nel proprio percorso di cura verso il benessere psicofisico e l’inclusione sociale (empowerment).

Si legge nel piano socio-sanitario del 2010-2012:
«I percorsi di cura e riabilitazione si realizzano attraverso processi emancipativi capaci di ricostruire i tessuti relazionali, affettivi, familiari, sociali e produttivi […] con due importanti obiettivi: superare definitivamente il paradigma della “stabilizzazione clinica” in favore di percorsi di “ripresa” anche sociale; potenziare il protagonismo degli utenti, sia a livello individuale che di gruppo».
Queste affermazioni si fondano sui concetti di empowerment e recovery. Recovery è intesa come ripresa, guarigione, non nel senso di ritornare allo stato precedente di assenza di malattia, ma nel senso di acquisire consapevolezza della propria vulnerabilità e avere conoscenza degli strumenti disponibili per gestirla, andando avanti con la propria vita. Il fatto che i professionisti italiani continuino a utilizzare termini anglosassoni senza trovare o coniare termini italiani è probabilmente una prova che questi concetti non sono ancora realmente entrati nel bagaglio culturale né degli operatori né di chi usufruisce dei loro servizi.
Infatti, nei territori la presa in carico delle persone da parte dei centri di salute mentale è medicalizzata, paternalistica e cronicizzante.


Nell’attuale approccio terapeutico è predominante il ruolo del farmaco anche nel linguaggio usato comunemente. Mentre le linee guida regionali per terapia intendono tutta una serie di interventi personalizzati quando gli operatori chiedono alle persone: “Come va?” normalmente intendono se hanno assunto tutti i farmaci prescritti. E così gli utenti del servizio: “Vado al csm a prendere la terapia”, cioè ad assumere i farmaci prescritti, a volte due volte al giorno anche per tutta la vita.
Nei piani annuali dei servizi si trova frequentemente l’obiettivo di “promuovere l’adesione al piano terapeutico” cercando anche l’alleanza con i familiari: si intende prevalentemente l’attenzione alla somministrazione dei farmaci prescritti, spesso lo stesso cocktail per anni. Le attività offerte dal centro di salute mentale, come gli inserimenti lavorativi o la partecipazione alle attività più legate alla sfera emozionale e affettiva raramente vengono considerate strumenti riabilitativi ma spesso solo come riempitivi dei tempi vuoti della vita.
Mentre in alcune realtà italiane il mondo della salute mentale – professionisti, familiari, e persone affette da disturbi psichici – sta partecipando al dibattito internazionale rispetto alla necessità di avviare processi di riduzione o comunque di un uso oculato dei farmaci, dando molta più importanza al dialogo terapeutico e all’empowerment personale e sociale, niente di tutto ciò accade in Toscana.
Un altro elemento che dimostra come i servizi per la salute mentale siano involuti è dimostrato dalle attività di gruppo. Alcuni anni fa era molto più vivace l’attività dei gruppi di auto-mutuo aiuto. Nei primi anni 2000 la Regione approvò progetti emancipativi come le vacanze autogestite che creavano l’occasione per gli incontri di utenti di tutta la Toscana e che portarono alla costituzione della Rete Regionale degli Utenti. La stagione fu breve e tutto implose. Solo in poche realtà sopravvivono ancora i gruppi di auto-aiuto però sono per lo più “guidati” da operatori e i gruppi “terapeutici” spesso raggruppati per patologie – i bipolari, i depressi, ecc. – e quindi viene sempre più tralasciato l’aspetto emancipativo e decisionale della persona.
Il pregiudizio e lo stigma nel confronti delle persone con disturbi psichici si annidano prima di tutto nei professionisti e questo atteggiamento si propaga ai familiari e alle persone stesse: poca speranza di uscire dalla gabbia della malattia e dalla dipendenza dal farmaco e dagli operatori dei servizi.
Certo, gli psichiatri hanno le loro responsabilità come professionisti ma a loro difesa c’è da considerare il fatto che da sempre sono stati lasciati soli a gestire quotidianamente situazioni che dovrebbero poter contare su tutta una serie di strumenti che il sistema sanitario e sociale dovrebbe fornire. Per esempio, poco si è fatto per l’abitare supportato e per le politiche attive del lavoro. Per chi entra nella gabbia dei servizi di salute mentale spesso si tratta di una condanna alla cronicità.
Le responsabilità sono sia nazionali, che regionali. Prendiamo le leggi che, promulgate per sostenere le fragilità, si trasformano da garantiste nelle intenzioni a prevaricanti nell’applicazione. La legge 68/99, nata per favorire l’assunzione dei disabili, all’articolo 9 comma 4 è palesemente anticostituzionale perché esclude a priori i disabili psichici dalla partecipazione ai concorsi della pubblica amministrazione, ma finora niente è stato fatto per abrogarla. La legge sulla privacy viene spesso interpretata in modo restrittivo e impedisce ai familiari di partecipare al processo di cura dei figli e alle associazioni di tutela di rappresentarli. La legge sull’amministratore di sostegno del 2004 era nata per sostenere i percorsi di autonomia delle persone ma nella realtà è spesso degenerata in uno strumento gestito da assistenti sociali e giudici. Per la maggior parte l’amministrazione è affidata ad avvocati che si occupano frettolosamente e quasi esclusivamente degli aspetti economici del loro mandato che burocraticamente richiede loro di occuparsi anche del vigilare sulla cura e sui percorsi emancipativi ma che nella realtà il giudice non verifica e i servizi ostacolano. Nessuno vigila per modificare le storture o porre rimedio. Risultato: così non solo la persona non viene aiutata a raggiungere maggiori obiettivi di emancipazione ma è questo stesso strumento che ne limita ulteriormente l’autonomia.
La responsabilità della Regione Toscana è notevole. Da molti anni l’Agenzia Regionale della Sanità pubblica dati che evidenziano l’eccessiva prescrizione di psicofarmaci, ma nessuna azione viene presa in merito. La Regione incarica l’Istituto di Ricerca S. Anna di valutare i servizi sanitari ma i criteri adottati sono esclusivamente sanitari nonostante le normative prevedano anche l’inclusione sociale.
La pratica sempre più frequente di ricorrere a bandi al massimo ribasso per affidare i compiti riabilitativi a cooperative e associazioni esterne al servizio pubblico è diventata sempre più una delega senza verifica concreta di efficacia, con il risultato di ritrovarsi piccole strutture spesso in luoghi isolati senza personale specializzato utili per il contenimento ma non per l’emancipazione e l’inclusione sociale.
La grande parcellizzazione delle competenze regionali senza una regia autorevole per quanto riguarda la salute mentale ha portato ad una burocratizzazione sempre maggiore che aumenta sempre più il divario fra i bisogni dei cittadini e l’offerta di soluzioni: c’è un settore che si occupa dell’appropriatezza delle cure ma la salute mentale non viene presa in considerazione. Di governo clinico per la salute mentale non si parla più. I criteri per l’accreditamento dei servizi, molto puntuali anche per quelli di salute mentale, vengono considerati solo adempimenti burocratici non come linee guida per l’operare giornaliero. I funzionari che hanno diretta competenza per la salute mentale sono oberati da decine di altri compiti e in più si avvicendano frequentemente senza prendersi molte responsabilità.
La pandemia, con le chiusure che ha comportato, ha fatto emergere tutte le criticità dei servizi per la salute mentale che si sono sommate negli anni: pochissimi psicoterapeuti, spazi angusti che non permettono il distanziamento con la chiusura come unica alternativa, la riduzione dei contatti diretti, l’annullamento della socialità. Mentre paradossalmente i “cronici” si sono “adeguati” meglio per l’abitudine alla solitudine la situazione è scoppiata nell’ambito dell’adolescenza: il recente dossier dell’ospedale Meyer, che denuncia l’aumento dell’autolesionismo e dei tentativi suicidari nonché degli attacchi di rabbia e di violenza, deve destare allarme perché questi fenomeni sono in crescita. Il bisogno di prevenzione diventa sempre più impellente.
Nessuna speranza?
No, fortunatamente la luce della speranza è visibile in fondo al tunnel. L’impostazione teorica che prevale anche a livello internazionale è solida e investe sulla resilienza delle persone stesse e sull’autorevolezza di alcune metodologie che rifiutano lo stigma della cronicità e del paternalismo e puntano all’emancipazione. La sperimentazione italiana del Dialogo Aperto, ancora troppo limitata, sta dando risultati molto incoraggianti, specialmente se attivata fin dal primo esordio della crisi acuta. Ci sono d’aiuto le conoscenze che arrivano dall’esperienza dei pochi dipartimenti che hanno investito sulla fiducia nelle possibilità di recupero basate sulla promozione delle risorse della persona e sulla formazione di personale ancora appassionato. Hanno costruito patti territoriali e reti sociali finalizzate all’inclusione sociale. Queste sperimentazioni dimostrano che anche le comunità ne traggono beneficio e i costi sono inferiori.
La Toscana deve muoversi in fretta per chiarire la mission dei servizi di salute mentale e costruire una rete gestionale nella quale i vari dirigenti comunicano e collaborano perché ora la parcellizzazione delle competenze porta con facilità a non assumersi responsabilità per la salute mentale. E, invece, è compito di tutti individuare le criticità e cercare possibili risposte: la politica, le direzioni regionali, le associazioni di volontariato e, mai ultimi, gli operatori stessi. Deve essere investito molto in formazione a ogni livello, premiando le sperimentazioni efficaci. Solo lavorando così possiamo sperare che scompaia lo stigma nei confronti delle persone con disturbi psichici e che essi possano condurre una vita soddisfacente nel proprio contesto sociale. Questo andrà a beneficio di tutta la comunità perché non bisogna mai dimenticare che non c’è salute senza salute mentale.

 

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