Continua la discussione su UMANESIMO MARXISTA E RIVOLUZIONE: “La rottura rivoluzionaria” di Andrea Gorini

Affermazione: “la rivoluzione non è surrogabile”

Risposta: “Palermo è una bella città”

La specificità del genere umano risiede nella sua capacità di trasformare la materia che lo circonda in valori d’uso attraverso il “lavoro”: capacità fisica impastata con “coscienza” e “volontà”. In quanto componenti inseparabili di questo trinomio, coscienza e volontà possono progredire nel loro sviluppo solo e soltanto nella misura in cui lo fanno quelle che definiamo forze produttive materiali del lavoro. Le forze produttive esistono solo per “quanti” individuali ma la loro reale potenza si concretizza solo nell’unità dei lavori individuali stessi ed è questa unità organica che determina il modo nel quale una formazione sociale organizza la propria vita, le proprie relazioni sociali. Perciò, queste proprie relazioni sociali non possono essere superate se non tenendo conto della necessaria corrispondenza tra dove si vuole arrivare e la conseguente capacità di risposta che ad esse si richiede.

Che questo sia il “dna” del motore che ha permesso lo sviluppo della nostra specie, ce lo ricorda il fatto che il prodotto netto di qualunque formazione sociale è attribuibile solo e soltanto al lavoro. Questa sintesi può essere ancora efficacemente compressa, come accade nei manuali operativi le cui indicazioni derivano da esperienze scritte col sangue, nella seguente citazione: « non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».

 

Da dove quindi potrebbe spuntare, ora nell’intorno del 2018 -fuori dalla pratica sociale, fuori dalla lotta di classe “praticata”- l’umanesimo radicale cui si affiderebbe, richiamandosi a Marx, la soluzione del problema, non lo si capisce: a meno di richiederlo ai nuovi e sempre esistenti abitanti di una oweniana New Lanark.

La rivoluzione borghese ha iniziato a sgambettare all’interno dei rapporti sociali esistenti nel feudalesimo stesso. Forte (e cosciente) della sua superiore “proposta” economica se li è poi ingoiati,  sviluppando un percorso che è ancora oggi il nostro. Per il socialismo, come è evidente, questo sviluppo dall’interno non esiste in quanto non può esistere. L’unico sviluppo possibile lo assicurano le rotture rivoluzionarie (i cui protagonisti non hanno mai avuto né potranno avere un particolare colore della pelle) che sino ad ora hanno rappresentato, però, solo le condizioni potenzialmente necessarie ma non sufficienti. Questa sequenza indefinita di rotture rivoluzionarie in ambiente sempre dominato da rapporti sociali di produzione dati (cioè: è l’essere sociale che determina la coscienza) tenderebbe a far ricordare il paradosso del corridore (fatto salva l’estraneità e l’impossibilità della logica a riprodurre le contraddizioni immanenti nei processi sociali) che dovendo sempre percorrere la metà della metà di ciò che gli resta per tagliare il traguardo, a questo traguardo non ci arriverà mai. Se ci arriverà o no (e questa è l’unica analogia) dipende sotto quali condizioni, con quale strategia di marcia, sulla base dei precedenti insuccessi,  il corridore si deciderà ad affrontare il passaggio di questi infiniti segmenti. E deve farlo contemporaneamente alla decisione di correre.

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