Salvestrini Giulio, Scegliete la Signora Morte

Scegliete un romanzo, scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete un romanzo fantasy, scegliete lavatrice, macchina, un romanzo giallo, cd e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso, la polizza vita e buoni romanzi di formazione; scegliete mutuo a interessi fissi, cazzuti romanzi erotici, scegliete una prima casa, scegliete gli amici e i romanzi per ragazzi. Scegliete una moda casual e le valigie in tinta, saghe familiari, romanzi horror, romanzi di critica sociale e fantascienza. Scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai-da-te e chiedetevi chi siete la domenica mattina, davanti ad un fottuto romanzo spirituale. Scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz, mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Romanzi inchiesta, gialli, verdi, naranja e terra di siena bruciata. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete un genere di romanzo che si addica alla vostra giacca, che faccia pendant con la vostra penna. Scegliete il futuro, scegliete la vita.
Davanti a questa parola – R-O-M-A-N-Z-O – così megalitica, la memoria mi costringe a ricordare quella splendida mattina in cui ebbi il piacere di scambiare due chiacchiere con Alejandrito, un docile ma indomato stallone messicano. Durante il nostro conversare che inciampava su varie sigarette e pause di sguardi, rivolti soprattutto alle passanti, mi colpì una massima che ancora mi fa sorridere. Domandai cosa avesse letto ultimamente di interessante e questi con tranquillità mi disse di tres libros maravillosos: «Che libri sono allora?» – «Asì Hablò Zaratustra, Asì Hablò Zaratustra, Asì Hablò Zaratustra».
Il romanzo come genere letterario che impanca la propria comunicazione sulla matrice del foglio – o dello schermo – implica, non a caso, una forte indeterminatezza relativa all’atto della lettura. È per questo che non può esistere un Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda – libro di P. Villaggio – se non come definizione fuorviante, al di là della quale invece si stagliano nell’universo gli smisurati spazi del testo e delle sue potenzialità semantiche, e quindi molteplici Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda, come molteplici realizzazioni possibili di un solo personaggio. Lo stesso vale per le proprietà intrinseche del genere, che purché costruito su determinate tecniche comunicative e di assemblaggio della parola, al contempo attira nel suo nucleo profondo, iperdenso, senzatempo, senzaspazio, anche le dimensioni della poesia, della filastrocca, della non storia e della musica, come del silenzio più assoluto – e l’olfatto? Il tatto? E cos’è l’autore? Puff… Sicuramente non chi scrive. Ma se proprio dobbiamo accettare – e deglutire – questa definizione di genere, questa parolona, è bene sempre rammentare il ruolo, nel romanzo, dell’assenza. L’intreccio continuamente confonde lo scritto con quanto non è scritto, rimanda inevitabilmente ad un’antimateria che si appone all’ammasso materico del dato visibile, un abisso extratestuale che fonde la legge della causalità meccanica a svariati universi paralleli, facendo inevitabilmente esplodere qualunque definizione vera del messaggio. Il romanzo, d’altronde, come tutta la letteratura, eleva la propria forza semantica – di poter dire qualcosa di nuovo – proprio perché legittimato dall’arte e dai suoi poteri psicomagici. Se il romanzo nega dei valori, si oppone a una morale, o quant’altro, al contempo, negando questi sistemi, li interiorizza, rendendoli uno scheletro sopra il quale depositare chili e chili di carni e muscoli – e perché no! Anche letame – per costruire nuovamente una qualche immagine di umanità. Al contempo, tutto quello che è taciuto, la negatività – c’è chi ha chiamato così questa antimateria semantica – si rapporta allo scritto confondendo le basi di una fruizione a scatola chiusa, ad un unico senso di marcia. È allora in questo contesto dialettico di indefinito e definito, assenza e presenza, che il romanzo non è più romanzo, e diventa poesia, pazzia, fraseggio di suoni e colore materico, esplodendo oltre la propria identità per ritrovare una nuova epifania con la propria essenza, al di là della definizione. È per questo che, dinnanzi a un romanzo, in primis bisogna sotterrarlo, sotterralo nel profondo della terra, farlo decomporre tra i vermi, scordarsi di cosa è, per poi vederlo risorgere, arrossarsi nella rubedo alchemica e marchiare le insondate fibre del lettore, della pelle, dello stomaco e delle dita. Solo sorpassando il concetto di romanzo, il romanzo può continuare ad essere, al di là del mero oggetto di consumo, non una lampadina nuova da spengere prima del sonno! Non una bella borsa firmata! Non una categoria da scaffale per cervelloidi classificatori.
Solo così può avverarsi l’unica vera grande missione: la messa in atto di un esercizio spirituale attraverso il quale si possa ristrutturare l’esperienza, al di là della pretesa di aver svolto bene un compito. Il romanzo non può essere solo un’isoletta fortunata sulla quale trascorrere il tempo ed evadere. Io confido in un romanzo invasivo più che evasivo, che trasporti la presenza ai confini di una nuova assenza, che inghiottisca dentro di sé qualcosa che non c’è e che spero potrà esserci. È per questo che probabilmente il romanzò dovrà esplodere! Letteralmente! Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete un genere di romanzo che si addica alla vostra giacca, che faccia pendant con la vostra penna.

Scegliete il futuro,
scegliete la vita.

Informazioni su Giulio Salvestrini 1 Articolo
Esperto di William Blake, primitivista incallito

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