Al tempo del coronavirus: TENIAMOLA PULITA LA NOSTRA PRIGIONE (1) di Giovanni Commare

 

Era cessato il movimento delle auto, tutte ferme lungo i marciapiedi, e l’ordinario rumore aveva lasciato spazio al silenzio. Veniva naturale alzare gli occhi, oltre i rami dei platani ancora senza foglie, era un cielo di nebbia, scuro, privo di stelle. Gli umani sembravano scomparsi. Finché ne comparve uno, lontano, sul mio stesso marciapiede. L’immagine, invece di confortarmi, un poco mi inquietò e mi sembrò una fortuna che il mio simile prima d’incrociarmi cambiasse marciapiedi. Era cominciata la diffidenza. Quella sera erano entrate in vigore le misure urgenti emanate dal governo allo scopo di contenere l’epidemia, la quarantena totale. Aveva una dura consistenza, quasi la toccavi con ribrezzo, era quel silenzio, il sospetto che faceva temere nel proprio simile il portatore del contagio.

E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.  Ecco, Boccaccio verso la metà del 1300 aveva già raccontato ribrezzo e sospetto. Anche se per nostra fortuna il coronavirus, inteso Covid-19 come malattia, non è la peste bubbonica, è questo l’orizzonte che circoscrive la nostra esperienza. Identico è lo spavento, la paura di morire, per una generazione che non ha conosciuto la guerra ed ha vissuto i settant’anni più pacifici e sicuri di sempre (felici anche, forse lo potremo dire fra poco). E ora l’epidemia ci toglie il terreno di sotto i piedi, frantuma le sicurezze, ci costringe a pensare alla morte come evento non solo possibile ma prossimo. Non abbiamo il coraggio di guardare in faccia la condizione umana, il morire che pensavamo confinato in un tempo indefinito. Il pericolo è presente. Ed è comune a gran parte degli umani viventi sul pianeta. All’inizio lo intuiamo, ma è un dato di fatto  quando su un giornale leggiamo che confinati in casa siamo 3,9 miliardi (e in aumento), siamo soli ma in grande compagnia, l’umanità. Allora all’incistarsi della diffidenza si oppone un sentimento di appartenenza alla specie, ci sentiamo e siamo la parte di un tutto. L’appartenenza è pure un bisogno, accresciuto dal limite imposto alle nostre vite, che è poi la porta di casa. Il bisogno di appartenenza è così forte che rischiamo di lasciarci sedurre da una bandiera o da un inno nazionale, meglio di niente, e rischiamo di finire facilmente arruolati tra gli identitari quando volevamo invece qualcosa di più, sentirci parte di una totalità, dell’umanità. Ma forse è solo bisogno di fare massa proprio come i virus, elementari forme del vivente che ci danno la caccia per abitarci, per puro istinto di sopravvivenza.

C’è da abituarsi alla reclusione e, poiché dobbiamo viverci, teniamola pulita la nostra prigione[1]. Il programma delle cose da fare tende all’infinito, ma non è facile concentrarsi sul lavoro.  Non, come si potrebbe pensare, per l’angoscia della situazione che tocca vivere, assediati nelle nostre case dal Nemico invisibile, scansàti, se ci tocca uscire per strada, dal nostro simile che appena ci vede cambia marciapiedi. E’ per l’intensa vita sociale che si conduce stando in casa: l’angoscia dell’isolamento ci spinge a parlare con tante persone e per tanto tempo come mai prima, le discussioni sono animatissime, le storie straordinarie. Ci si scalda sui dati del contagio, sulle percentuali e i grafici, che obbligano a un ragionamento alla ricerca di una qualche speranza, dato che i numeri sono efficacissimi per controllare le emozioni, anche le paure. Attraverso l’aritmetica, come due più due fa quattro, giunge l’illuminazione, roba da ragazzi, che non si può vedere solo l’epidemia, che non ci si può fermare alla paura della morte, che si deve e si può raccogliere quel minimo coraggio per guardare accanto e oltre dove qualcosa di bello e di buono c’è. Pure in questo orribile presente.

 Nella reclusione, nell’assenza di contatti fisici, il virtuale è reale, ora è incontestabile. I vituperati social distruttori della socialità e divoratori dell’irrecuperabile tempo di vita, diventano effettivi sostituti della comunità, salvano dalla solitudine, tutti quelli almeno che vivono come sofferenza l’essere  soli. Dobbiamo fare un proponimento, ricordare questo sentire, questo sentimento di comunità, perché ne avremo bisogno nel futuro, perché un futuro ci sarà. Ma poi arriva lo stesso la conta dei morti, è un rito ormai, tutte le sere alla stessa ora si aggiornano i numeri dei contagiati, dei guariti, dei morti, questo dato sempre per ultimo, nell’intento forse di non deprimere troppo gli spettatori e che invece ristagna come un grumo di angoscia in coloro che temono di essere candidati a entrare tra quei numeri. Il virus è democratico, colpisce tutti, operai e capitalisti, idraulici e calciatori, parrucchieri e teste coronate, artisti, preti e infermieri …  Eppure, davanti alla morte non si può essere proprio conigli, un minimo di dignità, per dio.

Basta paura!  È il caso di liberare la mente dalla comunicazione terrorizzante basata sul bollettino dei morti del giorno, che finisce per alimentare l’angoscia più che la responsabilità dei cittadini. Non si può sopportare a lungo una esposizione continua alla morte e a un dolore che sembra irrimediabile,  queste morti nella solitudine, i familiari e gli amici che non possono dare l’ultimo saluto. A meno di non essere monaci buddisti abituati a meditare sulla fine dei corpi. Insomma, dico ai responsabili della comunicazione ufficiale del Governo, rafforzate le motivazioni  perché facciamo la nostra parte e non soltanto per difendere la pelle. E intanto si chiudano tutte le fabbriche e le attività non essenziali (incredibile: sono ancora aperte fabbriche e fabbrichette della provincia di Bergamo, epicentro dell’epidemia in Italia).

Benvenuta la telefonata. Sai, la nonna, che si lamenta sempre: Sono stanca, sono troppo stanca, voglio morire! Le ho detto,  Nonna, no, aspetta, non morire adesso. Ora non ti tocca nemmeno il funerale! E poi, a noi non ci pensi? Come faremo senza la tua pensione?

E basta anche con la retorica dei capitani e degli eroi! Conserviamo però  la memoria, perché un futuro ci sarà e il popolo italiano ha memoria labile. Ricordiamo che con la spending review per ridurre il debito i governi hanno chiuso i rubinetti degli investimenti nella sanità pubblica: mentre dal 2001 al 2008 la spesa sanitaria era cresciuta del 14,8%, dal 2009 al 2017 si è ridotta allo 0,6%; ciò ha provocato la riduzione della spesa per il personale sanitario del 6% dal 2010 al 2016, il blocco del turnover, l’abbattimento di 70000 posti letto, la chiusura di 175 unità ospedaliere, e l’accorpamento delle ASL da 642 negli anni ’80 a 101 nel 2017 (Nicoletta Dentico, 2020). Il grosso dei tagli, circa 25 miliardi di euro (fonte Fondazione Gimbe), è avvenuta tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), a cui si sono aggiunti tra il 2015 e il 2019 altri tagli per 12 miliardi di euro (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I). Conseguenza: riduzione di posti letto per casi acuti e terapia intensiva, riduzione del personale sanitario di 46500 unità dal 2009 al 2017 (fonte Ragioneria di Stato). Tutto ciò che ci manca ora al tempo dell’epidemia.

L’emergenza dell’epidemia ci ha fatto dimenticare l’emergenza climatica che ci angosciava prima che il coronavirus arrivasse a minacciare la nostra vita e le nostre società. Rischiamo di cadere in un errore di prospettiva dimenticando il maggiore pericolo solo perché adesso ci appare più lontano, mentre le due minacce sono legate tra loro, anzi l’una sarebbe  conseguenza dell’altra. C’è chi sostiene che la responsabilità di quanto accade è interamente ascrivibile all’uomo, alla hybris del dominio totale che la nostra specie vorrebbe avere sulla natura, all’orrore di tecniche come gli allevamenti intensivi senza terra, con miliardi di polli, milioni di suini e bovini rinchiusi per le intere loro brevi vite in spazi artificiali e ristretti. Secondo Ilaria Capua, siamo noi ad aver alterato il sistema, invadendo spazi di altre specie animali,  portandole all’interno dei nostri, per lo più in megalopoli densamente abitate e in condizioni di scarsa igiene, forti diseguaglianze e povertà. Poi  con gli aerei abbiamo consentito che il virus si spargesse rapidamente ovunque. Senza l’intervento umano il virus sarebbe rimasto dentro il pipistrello. Lo sostengono anche gli scienziati interpellati da David Quammen (Spillover, 2012): gli esseri umani invadono e alterano con le loro attività gli ecosistemi naturali di ogni parte del pianeta in cui vivono molte specie di animali piante e altre creature, ognuno dei quali contiene virus predisposti al salto di specie (spillover): quando uno di questi microorganismi riesce ad adattarsi alla trasmissione da uomo a uomo bastano i collegamenti internazionali a diffonderlo in tutti i continenti e specialmente nelle zone ad alta densità demografica. In sintesi, a smuovere i virus spingendoli a trovarsi nuovi ospiti è l’attività umana che distrugge gli ecosistemi. L’azione degli uomini è ciecamente distruttiva perché non ha consapevolezza che siamo parte della natura, siamo troppi e consumiamo troppe risorse, come un buco nero al centro della galassia che attira tutto verso di sé, virus compresi. La soluzione suggerita da Quammen è maltusiana: ridurre la popolazione umana, per ridurre il consumo delle risorse e limitare l’alterazione degli ecosistemi. Ma siamo sicuri che sia questa la catena di cause ed effetti? O forse il coronavirus c’entra poco con l’emergenza ambientale ed è meglio liberarsi dal senso di colpa e prendere atto che c’è sempre stata una guerra tra umani, virus e batteri? La colpa degli umani che vanno a stanare questi invisibili nemici vale anche per l’epidemia di spagnola del 1918-20 (ma ‘c’era stata la guerra!’), per le varie ondate di peste bubbonica, per la tubercolosi?  In ogni caso, sarebbe bene che, quando saremo riusciti a sopravvivere all’emergenza coronavirus, dedicassimo tutte le energie a costruire una relazione più armonica con la natura basata sul rispetto dei viventi, preparandoci  tuttavia all’ epidemia prossima che sarà peggiore di questa. Intanto abbiamo capito, se siamo disposti a capire, che “la natura sa farci molto male con le sue immense risorse” (semplificazione giornalistica del pessimismo leopardiano) .  Insetti e microorganismi ci sopravvivranno, questo è sicuro.

Dicono che dai satelliti si vedono limpidi  i cieli delle province industriali cinesi e pure  i cieli padani, come non succedeva dai tempi del blocco del traffico per la crisi petrolifera del 1973. Fermata la maggior parte degli automezzi e delle attività industriali, l’aria è finalmente pulita, ma c’è il rischio che i nostri polmoni non riescano a respirarla. Un’angoscia che rende evidente il limite del potere dell’uomo sulla natura che continua ad andare per la sua strada. Infatti, ecco il paradosso,  nell’ultimo fine settimana di marzo, nonostante il traffico terrestre e aereo sia ai minimi, sulla costa adriatica e nella pianura padana l’inquinamento da Pm10 è schizzato alle stelle. L’evento eccezionale pare non sia dovuto ad attività umana ma all’arrivo di grandi masse d’aria ricche di polveri provenienti dal deserto del Karakum (Turkmenistan, circa 4000 km dall’Italia).

[1] Gianfranco Ciabatti, Preavvisi al reo, 1985.

(4 aprile 2020, continua)

 

 

1 Commento

  1. Il discorso fila liscio,le riflessioni sono chiare, si segue bene il filo. Anzi, mi pare che rendano più comprensibili tante analisi sentite e rilette in giro (giornali,web,radio,TV). Ho molto apprezzato:”all’incistarsi della diffidenza si oppone un sentimento di appartenenza all’umanità”. Anche se poi il respiro di questo pensiero viene limitato dal rischi di lasciarsi sedurre da una bandiera,o altro. Questo sentimento che proprio adesso ciascuno di noi sperimenta con vari gradi di consapevolezza, mi pare fondamentale che cresca e si rafforzi per poter costituire, dopo, il terreno che ci permetterà di recuperare aspetti di umanità non degradata a dominatrice della natura.

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