UN ERGASTOLO PIU’ UMANO di Beniamino Deidda

Un ergastolo più umano

La sentenza della Corte Costituzionale del 23 ottobre 2019 apre finalmente uno spiraglio sull’ergastolo, uno degli istituti più controversi del nostro diritto penale. La Corte ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio ai detenuti, nonostante «siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo». Si tratta di una decisione, importante sul piano della giurisprudenza e della vita civile del nostro paese, destinata a sortire effetti rilevanti nell’assicurare i diritti fondamentali dell’uomo.

Sappiamo che gran parte dell’opinione pubblica è favorevole alla pena dell’ergastolo, cioè della reclusione per l’intera vita. E, anzi, non mancano, perfino tra i politici, coloro che di fronte a delitti di particolare gravità ritengono che non solo le pene debbano essere esemplari, ma che gli autori del delitto debbano “marcire in galera e si debba buttar via la chiave”. Questo modo di intendere la funzione della pena va a braccetto con la diffusa convinzione che la pena dell’ergastolo sia una condanna ‘simbolica’ che in realtà non viene quasi mai scontata per intero, perché intervengono varie occasioni di riduzione della pena o di liberazione, sia pur condizionale. E invece: oggi sono circa 1700 gli ergastolani di cui oltre 1200 “ostativi”, che cioè non possono beneficiare di permessi o sconti di pena; dal 2004 al 2014 vi è stato un incremento degli ergastoli del 38%, eppure da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi commessi dalla criminalità organizzata o mafiosa.

Finora nel nostro ordinamento i condannati per i gravissimi delitti di cui all’articolo 4 dell’Ordinamento Penitenziario potevano accedere ai benefici e ai permessi previsti dalla legge, se con il ravvedimento dimostravano di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritarli. Ma in nessun caso potevano accedervi senza fare i nomi dei complici o degli altri responsabili. C’era evidentemente qualcosa di fortemente irrazionale, prima che d’ingiusto, in questo meccanismo. Per spiegarlo occorre dire che il più grave problema che si pone per l’ergastolo, a parere di molti giuristi e di tanti cittadini, è quello della sua compatibilità con il principio del fine rieducativo della pena stabilito nell’art. 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità

e devono tendere alla rieducazione del condannato». Se, come credo, per rieducazione si deve intendere la possibilità della reintegrazione dell’individuo nel contesto sociale, una misura come l’ergastolo perpetuo, destinata ad escluderlo definitivamente dalla società, non può che risultare incompatibile con la Costituzione.

Ma non è solo l’ergastolo in sé che urta con il principio costituzionale, ma anche il suo ulteriore aggravamento, quella sofferenza aggiuntiva, quell’inasprimento sanzionatorio, che va sotto il nome di “ergastolo ostativo”: cioè la pena senza speranza, il passato criminale che schiaccia il presente e toglie ogni speranza per il futuro.

L’ergastolano “ostativo” ha la quotidiana consapevolezza di avere ben poche speranze di accorciare il fine pena e la sensazione di morire giorno per giorno. Ed è proprio questa disperante sensazione di una vita senza scopo che rende la pena dell’ergastolo ‘disumana’ e contraria ai principi della Costituzione.

Sappiamo bene tuttavia che nel nostro paese, nonostante le terribili stagioni del terrorismo e la ferocia della criminalità organizzata, non si è mai sopito il dibattito sulla compatibilità dell’ergastolo con i principi di civiltà e sul nesso problematico che intercorre fra la pena perpetua e i diritti fondamentali. Nella pena dell’ergastolo molti vedono il retaggio millenario della vendetta sociale, che ha preso il posto, nell’immaginario collettivo, della pena di morte. E tuttavia attraverso i tanti interventi della Corte Costituzionale in materia, l’ergastolo è stato progressivamente limitato nelle sue modalità più disumane, ma mai completamente abolito.

Questa divisione che da tempo contraddistingue la cultura del nostro paese è stata ancora una volta dimostrata dal fatto che una parte dei commentatori ha salutato con grande favore la decisione della Corte Costituzionale, sottolineando la corrispondenza della pronuncia con il principio rieducativo della pena. Ma molti altri, tra opinionisti, magistrati ed esponenti politici, hanno criticato severamente la sentenza. Alcuni addirittura hanno sottoscritto un appello per richiedere al legislatore un intervento normativo, volto a mitigare gli effetti della decisione della Corte, in relazione al “pericolo” che i sistemi del controllo antimafia risultino troppo indeboliti dall’abrogazione del divieto assoluto di concedere i permessi- premio anche ai “mafiosi”.

A molti magistrati (Giancarlo Caselli nel Corriere del 25 Ottobre, Antonio Ingroia nel Fatto del 26, Nicola Gratteri e altri) la sentenza della Corte Costituzionale non è piaciuta affatto. Essi hanno elencato una serie di ragioni, a mio parere di scarsa consistenza. Si è detto, ad esempio, che la decisione della Corte fa ricadere ogni responsabilità dell’eventuale concessione del permesso sul magistrato di sorveglianza. Il che esporrebbe la vita di questi magistrati a enormi rischi. Ma non si capisce perché mai corrano enormi rischi i magistrati di sorveglianza chiamati a pronunciarsi sul livello di rieducazione degli ergastolani e non corrano invece altrettanti rischi coloro che li hanno fatti arrestare, o che hanno disposto le misure cautelari in carcere o li abbiano condannati all’ergastolo. Si aggiunga che il 31ottobre del 2019 sul Fatto Quotidiano è stato pubblicato un appello per limitare ‘gli enormi danni potenziali’ di questa sentenza: «Mi aspetto e voglio un legislatore che riduca la fisarmonica del potere discrezionale del giudice», ha commentato il procuratore Nicola Gratteri. Per fortuna l’idea di limitare la discrezionalità dei giudici, gode di scarsa popolarità tra i magistrati e tra coloro che ritengono che le norme troppo rigide impediscano la giustizia del caso singolo. E infine, Caselli, Ingroia, e altri hanno anche sottolineato che, per la natura non dei singoli uomini, ma dell’organizzazione mafiosa, l’appartenenza alla Mafia è per sempre: se ne esce o da morti o da collaboratori di giustizia. L’appartenenza alla Mafia, non troncata con la collaborazione del detenuto, segnerebbe un limite alla sua rieducabilità. Ma è proprio questa logica della presunzione assoluta, per la quale chi non collabora apparterrà per sempre alla mafia, che è stata abbandonata dalla Corte Costituzionale.

Secondo la Corte, infatti, «nella fase di esecuzione della pena, assume un ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio». E ancora: «La presunzione assoluta impedisce proprio tale verifica secondo criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno […] di valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio. In definitiva, l’inammissibilità […] della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada. Ciò non è consentito dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione». Per la Corte dunque la non collaborazione è un «vero e proprio diritto», che non si può trasformare nella fase di esecuzione della pena «in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi […], ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati […] Ciò non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.».

Va poi ricordato che la collaborazione del detenuto è talvolta “impossibile” o addirittura “inesigibile” quando ad esempio sia impossibile offrire una reale collaborazione poiché su quella vicenda penale ormai è stata fatta piena luce: oppure, nel caso in cui il condannato, in ragione del suo ruolo marginale nella commissione del reato, non sia in grado di fornire informazioni rilevanti.

È vero dunque che la collaborazione è uno strumento strategico della lotta alla criminalità organizzata, che, dove è “effettiva”, consente ai condannati l’accesso anticipato alle misure alternative, ma le ragioni di una mancata collaborazione possono essere anche nobili o comunque comprensibili (la scelta di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette, ecc.).

Il problema è allora quello della libertà di autodeterminazione di ogni uomo, anche se condannato all’ergastolo, che ha a che fare con la “dignità” della persona, che la Corte ha considerato come parametro costituzionale insormontabile: la preclusione assoluta derivante dalla mancata collaborazione non è solo irrazionale, è anche “violenta” perché coarta la libertà morale e riduce l’uomo da fine a mezzo, il che significa usare gli strumenti della rieducazione per scopi diversi (ad es. assicurare alla giustizia ulteriori colpevoli) da quelli che l’art. 27 della Costituzione impone.

Deve essere chiaro, però, che costruire la libertà di ogni detenuto non significa fare elargizioni, ma impegnarsi in percorsi lunghi e faticosi. Un cammino difficile, ma necessario, se davvero si vuol riconoscere la dignità di ogni uomo, fosse anche il peggiore criminale.

Del resto, pochi mesi prima, con la sentenza del 13 giugno 2019, la Corte Europea dei diritti umani aveva condannato l’Italia proprio per una vicenda legata all’ergastolo ostativo, dichiarando che la disciplina prevista dal nostro ordinamento si poneva in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), intitolato “Proibizione della tortura” (“Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). La Corte di Strasburgo sottolinea che la dignità umana, che è il cuore stesso del sistema istituito dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà senza al tempo stesso operare per il suo reinserimento e senza offrirgli la possibilità di recuperare un giorno tale libertà. Dunque, «lo Stato dovrebbe introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell’ergastolo che garantisca la possibilità di una revisione della pena, che consenta alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione della medesima, il detenuto si è evoluto e ha progredito sulla via dell’emendamento per cui non esistono più motivi […] legittimi per mantenerlo in detenzione, e al detenuto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili.”

Pertanto, d’ora in avanti, ai fini della concessione dei permessi premio ai condannati per delitti di cui all’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario, la collaborazione del condannato non costituirà più l’unica prova legale dell’assenza di pericolosità, giacché il magistrato di sorveglianza potrà indagare sulle ragioni dell’assenza di collaborazione senza necessariamente dedurne – per legge e in via automatica – la persistente pericolosità sociale e l’assenza di progressi sul piano del recupero e della rieducazione. La decisione della Corte, diversamente da quanto fa credere una stampa allarmista e poco attenta, non contiene alcun regalo ai boss e nessun lassismo nel contrasto del fenomeno mafioso. Al contrario, afferma con decisione che nessuna pena è compatibile con la nostra Costituzione se toglie al condannato la speranza, una volta pienamente ‘recuperato’, di poter essere un giorno reinserito nella società.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*