E’ SCUOLA DAVVERO SOLO SE SUONA LA CAMPANELLA di Beniamino Deidda

Da molti mesi ormai si discute degli effetti del Covid-19 sull’attività scolastica. In questo momento la confusione è altissima: in tutte le scuole superiori è sospesa l’attività scolastica in presenza degli alunni, costretti a seguire le lezioni da casa o comunque da remoto. La stessa disposizione vale per gli alunni della terza media. Solo le elementari e le classi prime e seconde delle medie sono a scuola per seguire le lezioni in presenza. Ma non per tutti valgono le stesse regole. Per effetto dell’autonomia delle Regioni in materia di salute pubblica, alcuni governatori regionali hanno preso l’iniziativa di vietare la presenza a scuola per tutte le classi. Ne sono seguiti ricorsi al TAR, con le pronunzie contrastanti da parte di TAR diversi.

Vorrei richiamare l’attenzione sulla reale posta in gioco che si nasconde dietro la scelta: scuola aperta o non; didattica in presenza o a distanza. Si tratta di una questione che non si atteggia diversamente a seconda dell’andamento della curva dei contagi, come qualche volta si ritiene. Il punto invece è stabilire la funzione della scuola durante l’emergenza creata dalla pandemia in corso. Tra i tanti che riflettono sugli effetti della pandemia, un buon numero esprime la convinzione che in tempi eccezionali sia del tutto ragionevole far saltare le priorità della nostra vita sociale. Ma il nostro sistema di diritti e doveri, disegnato dalla Costituzione, è regolato diversamente. La Costituzione prevede anche le eccezioni dovute all’emergenza e le regola stabilendo priorità e limiti. Non bisogna confondere lo stato di emergenza con lo stato di eccezione. Lo stato di emergenza nell’età del costituzionalismo democratico non deve mai mettere da parte gli istituti di garanzia costituzionale e il principio di proporzione. Perciò, quando si tratta di stabilire quali valori prevalgano e quali siano invece i diritti che nell’emergenza possono essere sacrificati, occorre interpretare correttamente il disegno che la Costituzione ha stabilito per regolare la nostra convivenza.

Si è detto, in un dibattito talora sconclusionato, che il diritto alla salute prevale su ogni altro diritto e che dunque per preservare la salute collettiva si possono sacrificare altri diritti di rango elevato. C’è un nucleo di verità in questa affermazione, se non altro perché senza i beni della salute e della vita è difficile godere di altri diritti. Tuttavia, quando si devono trovare le soluzioni per stabilire il punto di equilibrio tra la protezione della salute e l’esercizio di diritti altrettanto importanti, occorre individuare correttamente quali siano le priorità obbligate nella vita civile e sociale del paese.

Durante l’anno scolastico 2019-20 il governo ha chiuso tutte le scuole per evitare la diffusione del contagio e ha favorito modalità didattiche a distanza in tutte le scuole. Nello stesso periodo le scuole in quasi tutti i paesi europei sono rimaste aperte con adeguate misure di protezione.

In Italia il lungo periodo di didattica a distanza ha mostrato subito i suoi limiti. Le risorse messe in campo dalle scuole e dalle famiglie, diverse per capacità e organizzazione, ci hanno mostrato un quadro preoccupante in relazione al rispetto di fondamentali princìpi costituzionali, quali il diritto inviolabile allo sviluppo della personalità di tutti i ragazzi (art. 2 C.) e il principio di eguaglianza di tutti i cittadini, “senza distinzione di condizioni personali e sociali” (art. 3 C.).

Si è detto da molti che proprio la salvaguardia della salute dei ragazzi, dei docenti e del personale amministrativo sconsigliava la loro presenza a scuola. Ma l’esempio contrario di altri paesi europei ha mostrato la possibilità di contemperare diversamente l’esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti.

Del resto, non sono mancati esempi di un diverso contemperamento delle varie esigenze. Le fabbriche e i luoghi di produzione di beni sono rimasti aperti, favorendo il lavoro a distanza, ma provocando comunque la presenza nei luoghi di lavoro di milioni di persone. Con inevitabili affollamenti nelle strade, sui treni, sugli autobus e nelle metropolitane. Si è trattato di una scelta che in certe ragioni del nostro paese ha avuto tragiche conseguenze sul piano della salute.

Nell’emergenza che ci attanaglia i governanti sono chiamati a stabilire ciò che nel nostro patto fondamentale può essere sacrificato e quali principi invece devono essere osservati, se non si vuole stravolgere la fisionomia dello stato di diritto e della nostra democrazia.

Ebbene, la scuola è uno di quei diritti che non possono essere sacrificati durante l’emergenza. I nostri governanti sono capaci di vedere chiaramente che, per salvaguardare la salute, non si può rinunciare a produrre beni e servizi che ci garantiscano il cibo. Ma sono incapaci di comprendere l’impossibilità di rinunziare alla scuola in presenza. Questo si spiega in parte con la storia del nostro paese e con quella, relativamente recente, della nostra democrazia .

Ma se si pone attenzione ai principi della nostra Costituzione, si capisce che la scuola non può essere chiusa. La scuola non garantisce solo l’istruzione dei fanciulli e dei ragazzi; è anche un potente fattore di eguaglianza tra cittadini che si trovano in condizioni diverse sul piano personale e sociale.

È facile capire che un bambino di sei anni non può imparare a scrivere e a leggere davanti a un computer e senza la guida di un insegnante, come è facile capire che ragazzi di 13, 14 o 15 anni perderanno l’occasione di misurarsi e crescere con la frequentazione dei loro compagni a scuola. Non sono occasioni che possano essere recuperate: essi non avranno mai più 13, 14 o 15 anni e ci sarà per sempre un buco nella loro formazione.

Così accade che, in un colpo solo, la chiusura della scuola priva i ragazzi di un diritto che l’art. 2 C. definisce ‘un diritto inviolabile dell’uomo’ e accresce le diseguaglianze tra i cittadini in violazione dell’art. 3 cpv. (“E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli, ecc….”).

Neppure durante l’emergenza è consentito allo Stato di violare il principio di eguaglianza, né si possono violare i diritti che attengono alla dignità della persona. Anche qui la corretta interpretazione della Costituzione aiuta.

L’articolo 34 C., è la chiave del sistema costituzionale sulla scuola. L’articolo si apre con quel primo comma “la scuola è aperta a tutti”, che è il più breve di tutta la Costituzione, ma capace di esprimere concetti di grande importanza. Si noti la scelta delle parole fatta dai costituenti. L’articolo non significa solo quel che comunemente si ritiene, che cioè l’istruzione deve essere consentita a tutti. I costituenti sapevano misurare le parole: non hanno scritto ‘l’istruzione è aperta a tutti’, ma ‘la scuola è aperta a tutti’. L’espressione significa molto di più: perché garantisce a tutti di poter frequentare un luogo che è anche fisico, in cui ci si incontra per apprendere e nel quale si apprende davvero solo quando ci si incontra. La scuola cioè è il luogo della socialità, dove ci si misura, ci si confronta, si entra in relazione, in un intreccio essenziale per la formazione dell’uomo. L’apprendimento e l’educazione non possono essere solitari, hanno bisogno di un luogo in cui ci si confronta per apprendere insieme. Per questo la Costituzione ha usato l’espressione la scuola è aperta a tutti, con la quale vuole garantire a ciascun ragazzo la frequenza fisica di una comunità nella quale ci si educa e nella quale la vicinanza fisica e la comunicazione, anche non verbale, sono insostituibili. Questo non significa che non possano essere usate le tecnologie o l’informatica come strumenti di apprendimento. Ma esse non potranno mai sostituire la scuola come luogo fisico, necessario allo sviluppo della personalità. Una scuola con la presenza dei ragazzi dovrà essere sempre aperta per tutti.

Insomma, il limite di fondo nell’esperienza della scuola italiana sta nel fatto che da molti decenni nessun governo ha capito che la scuola era la grande questione nazionale. È mancata l’intuizione che la crisi di fondo della società italiana imponeva di affrontare il tema della scuola come rivolgimento necessario per lo sviluppo del paese. È la scuola la leva del non più rinviabile cambiamento. Una classe politica consapevole dell’importanza della scuola per il futuro dell’Italia non penserebbe mai di chiudere le scuole, esattamente come avviene in altri paesi europei, certamente più lungimiranti del nostro. Tenerle aperte si può: basta attrezzare gli spazi, dimezzare il numero degli alunni per classe (come è avvenuto in Francia), aumentare il numero degli insegnanti, ricorrere ai doppi turni. E poi: potenziare i trasporti, moltiplicare treni e autobus, diversificare gli orari di ingresso a scuola, evitare gli affollamenti sui bus, garantire le distanze tra i viaggiatori.

Si dirà che tutto questo avrebbe richiesto uno sforzo enorme per l’intero paese. Ed è vero: per troppi anni si è cercato di sistemare i bilanci tagliando le risorse alla scuola. Ricordiamo tutti, gli anni dei tagli cervellotici della Gelmini o la “buona scuola” del governo Renzi. Erano anni nei quali la scuola non aveva nessuna centralità. Oggi raccogliamo i frutti di quella politica insensata. Una politica che nascondeva la sua miseria dietro il paravento delle espressioni vuote: “la scuola è il futuro del nostro paese”, “i ragazzi sono la risorsa più preziosa che abbiamo” e via con la retorica.

Oggi vediamo il disastro: scuole fatiscenti, classi ‘pollaio’, un sistema di reclutamento degli insegnanti inadeguato da decenni, docenti trattati economicamente come impiegati di quarto livello. L’epidemia in corso ha avuto l’effetto di rendere chiaro il disastro e come sia difficile porvi rimedio. Ma siamo al bivio: già mancano i medici, i ricercatori, gli informatici, ecc. Se ora chiudiamo le scuole, come potranno formarsi? La soluzione è chiara per tutte le persone di buon senso. Il maggiore sforzo economico deve essere ora indirizzato a salvare la scuola: un numero decente di alunni per classe, edilizia scolastica rinnovata e funzionale, reclutamento degli insegnanti finalmente all’altezza di un paese civile, adeguato numero di insegnanti specializzati per il sostegno, stipendi decorosi per i docenti. Alla scuola oggi devono essere destinate risorse maggiori rispetto a tutti gli altri comparti. In una democrazia sana si può forse mangiare di meno (serve contro l’obesità), ma non si può avere meno scuola in presenza per tutti i ragazzi.

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