I TRALICCI, L’IMMENSITA’ E IL CONFLITTO ESTETICO di Maria Antonella Galanti

La tristissima notizia che non vorremmo sentire ci ha raggiunto: la generosa amica e collaboratrice della nostra rivista Maria Antonella Galanti non c’è più. Ordinaria di Didattica e Pedagogia Speciale al Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere e responsabile scientifica del Polo Musicale del nuovo Centro per l’Innovazione e la Diffusione della Cultura dell’Università di Pisa, ha scritto per il Grandevetro contributi di raffinata sapienza e di grande umanità. Ci piace ricordarla con questo sguardo di bambina nell’articolo pubblicato sul GV 243, dedicato al Paesaggio.

Mia nonna conservava in una scatola di latta certe vecchie cartoline di auguri. Tra le tante mi colpivano molto quelle pasquali che rappresentavano spesso le rondini posate sui fili della luce, tenuti su da tralicci maestosi che si ergevano nel verde. Mi sono sempre piaciuti i tralicci, i loro disegni geometrici, il bruno metallico dei loro rami, il colore chiaro, tra il celeste e il verdolino, degli isolatori di vetro sistemati all’apice. Mi piaceva anche che la linea dei fili fosse non tesa, ma leggermente arrotondata, e che gli uccellini vi si posassero davvero, in lunghe file che interrompevano a turno, spiccando brevi voli, e che subito ricomponevano con un veloce frullare di ali.

Sono cresciuta in un piccolo paese di collina, nel sud profondo di questa provincia lunga e stretta, in un paesaggio caleidoscopico nel quale, in misura incomparabilmente più significativa di quanto accadeva in città, i colori cangiavano con le stagioni. Con il trascorrere ritmico dei mesi il paese e il paesaggio circostante sembravano trasformarsi fino al punto da essere quasi irriconoscibili, quando il rosso e l’arancio drammatici dell’autunno sfumavano nel biancore della neve e nel grigio chiaro degli alberi spogli, e poi ancora nel verde tenero, nei rosa e nei bianchi dei fiori di primavera e infine nei gialli esplosivi dell’estate. Mentre si avvicendavano i colori e gli odori, i segni delle attività umane sembravano, al contrario, pressoché immutabili. Di giorno o nel silenzio della notte, infatti, i rumori che le scandivano o che le segnalavano erano sempre gli stessi, in relazione a un tempo più circolare che lineare. Rimandavano ad abitudini, a ritmi ripetuti, alla regolarità degli spostamenti e degli incontri. Insomma, era un po’ una situazione opposta a quella della città, nella quale ciò che muta è soprattutto il complesso dei rumori e dei movimenti provenienti dalle attività degli esseri umani e dal loro agitarsi, mentre il paesaggio naturale, scarno e di sottofondo, sembra quasi cristallizzato. I mutamenti di ciò che in città lo adombra non sono mai esplosivi, ridondanti, amplificativi; riguardano un angolo verde, un sito periferico, un giardinetto, ma non forniscono una visione di insieme.

In città – l’avrei capito più tardi – si stava attenti ai segni di mutamento prevalentemente attraverso il canale acustico, associandolo alla vista. In campagna, invece, consideravamo i rumori e i suoni come delle conferme un po’ noiose, benché rassicuranti, ed eravamo molto più ricettivi rispetto ad altri segnali sensoriali, legati in primo luogo all’olfatto e naturalmente anche alla vista. Coglievamo in questo modo il trascorrere l’una nell’altra delle stagioni, il volgere del giorno e della notte, il presagio di qualcosa che moriva o di qualcosa che invece stava per nascere. Con le narici frementi potevamo figurarci la pioggia che sarebbe caduta di lì a poco o la neve o, ancora, il vibrare impercettibile delle nuove gemme. Era, questo, un alfabeto fatto di segnali indicibili atti a comunicare direttamente con l’ambiente. Il paesaggio era come un grande libro aperto, come una narrazione inesauribile che ci era stata donata fin dai momenti aurorali della nostra esistenza e attraverso di lui si esaltava il nostro legame con la natura. Una natura tutt’altro che incontaminata, ma antropizzata e animizzata, che poteva servire quasi come un utile specchio dell’anima. Così, potevamo sdraiarci, quando l’aria era più mite, e osservare le nubi nel cielo che si rincorrevano, il loro cangiare di forma, il loro assomigliare ad animali, a volti, a costruzioni, a onde acquatiche. Potevamo salire su un’altura e da lì guardare il mare verde mosso dal vento e le lunghe distese di ulivi le cui foglie, quando la luce li carezzava a volo radente, sembravano quasi brillare come i metalli preziosi. Proprio gli ulivi, più di altri alberi, cambiavano colore al mutare dei momenti del giorno. I loro tronchi contorti erano scuri, quasi neri, al mattino presto e al tramonto, ma grigi di un tono molto chiaro quando il sole si alzava e raggiungeva la cupola del cielo; le loro foglie erano invece blu, al mattino presto e al crepuscolo, ma diventavano argentee a sole alto. C’era poi il rosario dei cipressi, disposti in lunghi cortei al bordo di molte strade e non solo di quella del piccolo cimitero. All’umbratile racchiuso nel fitto dei boschi, agli anfratti, ai sentieri stretti, ai roghi che rendevano obbligato il passaggio già battuto da altri, occorreva, del resto, che si alternasse il sovradimensionato, l’ampio, l’arioso, il visibile incontaminato, l’immenso. Bisognava salire in alto, per questo, e nella solitudine aspra e ventosa era possibile abbracciare con lo sguardo tutto ciò che discendeva giù, giù, fino ai tetti arroccati gli uni sugli altri delle vecchie case di pietra, che viste così da lontano parevano indistinte. Sembravano, allora, farsi improvvisamente invisibili anche gli affanni e le gioie di chi le abitava. Quando raggiungevo i poggi più alti per sedermi, immobile, a contemplare il paesaggio, tra me che guardavo e l’abitato c’era una distanza che pareva infinita e ci separavano immense distese di chiome di alberi, di filari di viti, di prati, di campi arati. Succedeva un po’ come quando ci si trova a passeggiare in montagna, nel nitore della neve. Il paesaggio, allora, non diversamente da quanto accade, in periodi non vacanzieri, di fronte a una vasta distesa marina, sembra quasi ammonirci rispetto alle gerarchie di valore, all’importanza immeritata che spesso assumono gli eventi che ci riguardano, alla drammaticità con la quale coloriamo gli accadimenti e persino i nostri moti interni. Tutto ciò che fino a poco prima ci pareva fondamentale e prioritario improvvisamente assume un connotato più blando e ce ne sentiamo come distaccati, pur essendo ancora coinvolti, nel considerare che siamo piccoli granelli di sabbia nell’immensità del deserto o gocce d’acqua in quella del mare.

L’esperienza della fusionalità con la natura, che in questo modo si realizza, quasi annullandoci, è qualcosa che riguarda profondamente l’estetica; è la risultante del piacere e la base del conflitto estetico stesso, dato dal connubio contraddittorio di desiderio e paura che caratterizza il nostro stato d’animo rispetto al bello. Lo amiamo e lo temiamo proprio perché ci sentiamo così attratti che potremmo fonderci con ciò che lo genera, disfacendo i nostri stessi confini psicofisici e perdendoci. Questa esperienza di fusionalità estetica può capitare con una persona, con un’opera d’arte e anche con un paesaggio. Chiudiamo gli occhi, infatti, di fronte all’immensità, dopo esserci fermati a contemplarla, e ci sentiamo diventare una cosa sola con il calore del sole sulla nostra pelle o con il rumore ritmico della risacca, con il frangersi negli scogli delle onde più impetuose o con il sibilo del vento tra i rami degli alberi. La nostra esistenza tutta è dimidiata tra il bisogno di individuazione e di confini saldi e quello di disfacimento degli stessi e di fusionalità con l’altro o con la natura.

Ci accorgiamo, allora, che il paesaggio, che per definizione è ciò che si pone frontalmente rispetto a chi guarda, non è, in realtà, che un grande schermo bianco nel quale proiettare il nostro mondo interno e la nostra molteplice e contrastante identità. Desolato, assolato, freddo, arido, romantico, ostile, ridente, lunare, magnifico, monotono, mozzafiato, ameno… In fondo, attraverso il rispecchiamento nel paesaggio, noi narriamo, semplicemente, noi stessi.

Quand’ero bambina non percepivo i tralicci come qualcosa di estraneo rispetto alla presupposta naturalità del paesaggio; non mi pareva che imbruttissero la scena, che sciupassero la vista. Per me erano alberi fra altri alberi, ma fatti di ferro anziché di legno. Mi piaceva osservarli come mi piaceva osservare un castagno, un platano, un ippocastano o un cipresso, un ulivo o una quercia. Ce n’erano di panciuti e di esili, di tozzi e di eleganti, come ancora ce ne sono; e ancora mi piace guardarli, fotografarli nei loro cortei o in un singolo dettaglio, da angolature diverse, resi infuocati da un tramonto di settembre e subito dopo abbruniti, nel crepuscolo.

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