Quando tutti saremo stranieri di Francesco Farina

La prima immagine che, da bambino, ebbi dell’Italia fu una figura di donna dai lineamenti regolari ed inespressivi, soffusa di un’aura cimiteriale, che, reggendo il simulacro della vittoria, si ergeva su un groviglio di soldati feriti o morenti, nel monumento ai caduti di guerra collocato in una piazza del paese dei miei genitori.
Allora passò il messaggio che queste sculture celebrative volevano trasmettere: commemorate e onorate il sacrificio, il valore e l’eroismo dei caduti per la Patria!
Più tardi compresi che la proliferazione in ogni Comune d’Italia di monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale, voluta dai governi prefascisti del dopoguerra e dal fascismo, non era altro che il tentativo di mascherare con l’enfasi delle forme scultoree, con il linguaggio ampolloso delle allegorie, l’insensatezza di quei sacrifici, di quell’eroismo, il vuoto di ideali e di valori di quella guerra terribile e sciagurata in cui erano morti inutilmente centinaia di migliaia di italiani.
Su quell’immagine dell’Italia, per chi come me visse la propria infanzia e la propria adolescenza negli anni della guerra e del dopoguerra, tra la Lunigiana della Resistenza e le terre d’Africa del colonialismo fascista, pesarono poi come tragiche ombre sia gli eventi dell’armistizio dell’8 settembre del ’43, sia le azioni di vero e proprio sterminio delle popolazioni libiche perpetrate dall’esercito italiano nei campi di concentramento per civili di Soluch, Sidi el Magrum, Agedabia.
Nel dopoguerra le parole Patria, Italia, Stato per molto tempo furono taciute come per vergogna: richiamavano immagini grevi di retorica fascista, nazionalista e razzista, erano deturpate dal ricordo di una disfatta senza onore, erano per me inevitabilmente associate ai crimini commessi dagli italiani contro il popolo del Paese in cui ero nato, la Libia. D’altra parte anche nei discorsi ufficiali venivano evitate e sostituite con la parola Paese. La memoria della Resistenza le riscattò, ma solo dopo molti anni dalla fine della guerra ciò fu riconosciuto apertamente.
Solo nelle partite di calcio giocate dalla nazionale sentii riecheggiare ancora la parola ITALIA, ma mi parve gridata più come slogan, per dar forza all’espressione del proprio entusiasmo, per dire “abbiamo vinto noi”, che come manifestazione di orgoglio identitario. ITALIA venne parimenti utilizzata per la promozione della produzione artigianale e industriale italiana nel mondo, più per affermare con giustificato orgoglio la nostra creatività e intraprendenza, che per affermare i valori della nostra identità.
Quanto a questi, non si è mai avvertito che la parola Paese o la parola Italia avessero richiamato a un dover essere, fossero espressione di una visione etica che inducesse alla pratica di virtù civiche, fossero rammemorazione di valori e di ideali che ispirassero un qualche vincolo morale verso la comunità nazionale, un impegno nella lotta alla diffusa illegalità. Erano piuttosto espressioni che davano modo di avere la rassicurante conferma, avvertita, a dir il vero, più dai cittadini economicamente garantiti che dai poveri e dagli emarginati, di essere inclusi in un contesto protettivo, omogeneo per comunanza di lingua, di tradizioni, di religione, di memorie storiche, progressivo nelle apparenze, immutabile nella sostanza.
Per quanto ricordo fu negli anni ’70 che divenne idea condivisa da ampie fasce dell’opinione pubblica la convinzione che l’identità italiana e le istanze morali legate all’idea di Patria, da molti vissute come valori autentici, non fossero che una creazione ideologica volta non tanto a creare una concordanza di intenti per comporre con giustizia contraddizioni e conflitti sociali, quanto a mascherare il fatto che la composizione dei conflitti avveniva normalmente nell’interesse dei più forti: generalmente i maschi e i padroni.
Negli ultimi anni la presenza nel nostro Paese di un numero crescente di abitanti provenienti dal resto del mondo, sta creando un diffuso senso di paura e di incertezza e alle idee di Patria, Italia, identità nazionale è stato attribuito un nuovo valore di simbolo da innalzare sulla barriera difensiva contro la diversità etnica e culturale che ci sta invadendo e che minaccia le nostre sicurezze.
In effetti sta cambiando nel profondo, a livello antropologico, la composizione sociale del nostro Paese, il nostro mondo culturale. La popolazione italiana non costituisce più un tutto omogeneo caratterizzato da un comune retaggio culturale; ne fanno parte persone con cui non abbiamo avuto in comune né tradizioni, né lingua, né religione, né storia.
Se è vero che non abbiamo avuto con loro un passato comune, sicuramente avremo un comune futuro; con loro dovremo necessariamente affrontare i problemi del mondo globalizzato che nel futuro ci attendono.
Nell’esperienza vissuta negli anni ’90 come dirigente di un istituto scolastico in cui la presenza di alunni provenienti da paesi extra-europei aumentò vorticosamente nel giro di pochi anni, sperimentai le difficoltà e i nuovi problemi, causati dalla convivenza nella scuola di alunni appartenenti ad etnie e culture diverse dalla nostra, ma ebbi anche l’opportunità di scoprire, nella crisi creata dalle trasformazioni in atto, la possibilità di nuove vie che portavano, per chi avesse voluto percorrerle, verso una più ampia e libera visione della vita e delle relazioni umane.
Mi portò a comprendere, per dirlo con le parole di Amartya Sen, che «la coesistenza di molte affiliazioni e di identità diverse è una caratteristica centrale del mondo in cui viviamo e non può essere ignorata nell’esame delle istanze della giustizia globale» (Amartya Sen, Globalizzazione e libertà).
Quasi a proseguire un processo di cambiamento iniziato negli anni ’70 ad opera del movimento studentesco e dei movimenti femministi, maturò secondo me, in quella situazione, una diversa consapevolezza della nostra identità: non identità intesa come dato immutabile unico, che ci contraddistinguerebbe stabilmente come popolo, ma identità come processo di permanente trasformazione e di inclusione a cui contribuiscono tutte le persone con cui entriamo in relazione.
Era un modo di pensare liberante che portava ad «accettare anche in noi affiliazioni plurali, affiliazioni di genere, di religione, di lingua, di professione […] ciascuna delle quali può dare luogo a vincoli morali e istanze che possono completare significativamente, o essere in seria contraddizione con altri vincoli morali e altre istanze emergenti da identità diverse» (op.cit).
Era una nuova, necessaria prospettiva in cui riconsiderare l’ambito delle nostre responsabilità «non più riconducibili all’appartenenza a collettività come “nazioni” e “popoli”, ma associate alla nostra umanità condivisa […] L’essere membro come cittadino di una comunità nazionale per importante che sia non può prevaricare le concezioni e le implicazioni comportamentali di tutte le altre forme di associazione collettiva» (op.cit).
A conclusione di questo discorso, rivedendo la nostra storia passata e recente, potrebbe citarsi l’affermazione di G. Agamben: «L’idea stessa di cittadinanza non può essere ai miei occhi qualcosa di cui essere orgogliosi e un bene da condividere».
A questo punto mi rendo conto che per valutare queste possibili conclusioni più interessante del pensiero di chi ha ormai la vita alle spalle sia il pensiero chi ha gran parte della propria vita davanti a sé. Perciò all’Italia raccontata dai padri ai figli vorrei far seguire l’Italia raccontata ai padri dai figli, italiani, che vivono e lavorano all’estero; dal loro punto di vista sapranno meglio di me dare un senso alle parole del poeta Francesco Nappo: «La patria sarà quando tutti saremo stranieri». O forse vorranno parlar d’altro.

Francesco Farina (Grandevetro 234)

1 Commento

  1. Ottima descrizione del funzionamento di un dispositivo di controllo/gestione sociale. Ma è necessario,Foucault, analizzare il metalivello dove si esplica il rapporto sovrano/suddito

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*