STATO E MERCATO, conversazione con Alessandro Volpi di Giulio Rosa

Professor Volpi, partirei dalle Sue riflessioni sulla monetizzazione del debito per puntualizzare quanto siano riferibili agli interventi diretti dello stato nell’economia italiana, sia nell’ambito di politiche di riequilibrio della distribuzione del reddito che, in generale, di quelle di investimento.

Nel 2020 l’economia italiana perderà più di dieci punti di Pil, una stima certamente al ribasso delle enormi difficoltà che incontra il sistema economico a produrre reddito; una difficoltà di fatto sconosciuta nel passato perché derivante da una paralisi sia della produzione sia dei consumi che non ha precedenti neppure in occasione dei conflitti, perché durante le due guerre l’economia italiana è riuscita a continuare a produrre con flessioni del Pil sotto vari aspetti meno marcate. Di fronte a una simile distruzione di reddito, l’unica strada percorribile, nel breve-medio termine, risulta essere quella dell’indebitamento come strumento per evitare un brusco e brutale impoverimento collettivo e, al tempo stesso, per dotare di liquidità il sistema delle imprese, che hanno bisogno di interventi urgenti per non fallire e di una ricapitalizzazione per trovare spazi in un mercato divenuto sconosciuto. Una simile mole di debito, che certamente rende i parametri di Maastricht e il fiscal compact ormai definitivamente fuori tempo, non può però essere oggetto di vincoli stringenti e neppure della possibilità di pesare sulle strutture dei bilanci pubblici e privati. Non può neppure sottostare all’esigenza di essere coperta da pesantissime manovre fiscali, inconcepibili in una fase in cui appare difficile definire anche soltanto le basi imponibili. Dunque, per evitare il disastro sociale e una recessione senza ritorno occorre che i singoli Stati, prima ancora delle mutualizzazioni del debito in sede europea, emettano partite di debito acquistate dalla Banca Centrale Europea che le può monetizzare, garantendole e coprendole con nuova produzione di carta moneta. L’attuale Bce non è ancora nelle condizioni di espletare questa funzione, avendo i caratteri di banca delle banche, ma la direzione da seguire è proprio quella della banca centrale, che monetizza il debito e fornisce agli Stati gli strumenti della ripresa senza affossarne i bilanci. In questo senso, la centralità del debito alimenta l’insostituibilità dell’intervento statale per tornare a produrre reddito e dunque contribuisce ad attribuire allo stesso Stato la scelta degli investimenti indispensabili. Del resto, l’utilizzo della monetizzazione del debito è avvenuto in altri momenti della storia italiana, con la Banca d’Italia, e si è rivelato decisivo per evitarne l’eccessivo onere, insieme a forme di cancellazione, come nel caso dei debiti di guerra, e di ristrutturazione unilaterale. Oggi, quel compito può essere svolto dalla BCE che, in questa fase, deve anche scongiurare una forte fase di deflazione e può contare sulla grande forza dell’euro, ben più robusto delle singole divise nazionali.

Nella storia economica dell’ultimo secolo possiamo individuare molte fasi di intervento diretto degli stati nei mercati finanziari e negli investimenti industriali, diversi tra loro per scopi e per struttura. Comincerei dalla creazione dell’IRI in Italia.

All’inizio degli anni Trenta l’economia italiana scontava una duplice difficoltà. Da un lato la politica di Quota Novanta, avviata da Giuseppe Volpi nel 1926 per eliminare quella che Mussolini considerava «la zona grigia della politica fascista», indicata appunto nella debolezza della lira, aveva imposto un cambio troppo forte e aveva chiuso i rubinetti della liquidità da parte della Banca d’Italia, costringendo il Tesoro al Prestito del Littorio con cui si consolidava una parte importante del debito italiano. In questo senso, il sistema italiano arrivava alla crisi del 1929 già con il fiato corto. Dall’altro lato, la stessa crisi metteva per l’ennesima volta in luce la difficoltà delle banche miste che, di fronte alla distruzione di valore delle imprese e alla loro incapacità di essere solvibili, finivano per restare paralizzate, privando il mercato del credito necessario. La nascita dell’IMI (nel 1931) e dell’IRI (nel 1933) costituivano così gli strumenti indispensabili per arginare un disastro in gran parte generato nel corso degli anni Venti, quando la politica economica del fascismo era risultata assai ondivaga e confusa. Lo Stato imprenditore interveniva, in ritardo, e in maniera costosa con il ricorso ai tecnici per sanare ferite profonde e senza una reale strategia, fidando ancora una volta sulla capacità di monetizzare il debito da parte della Banca d’Italia, a cui proprio nel 1936 si cambiava definitivamente natura, dopo la precedente riforma del 1926, per farne un istituto di diritto pubblico, privo però dell’indipendenza dalla politica necessaria a una banca centrale. In estrema sintesi, i salvataggi degli anni Trenta non configuravano una visione dello Stato in economia in grado di misurarsi con l’economia internazionale, ma erano solo l’espressione di una ricetta preparata all’occorrenza e, inevitabilmente, legata all’isolamento dell’autarchia.

Negli anni Novanta, per fronteggiare la grave crisi delle banche, il governo svedese intervenne drasticamente sul sistema.

Il caso svedese ha rappresentato per molti versi un’anticipazione della crisi del 2007. Le difficoltà del sistema bancario esplosero infatti dopo una fase, durata per buona parte degli anni Ottanta, in cui la deregolamentazione dei mercati finanziari e l’allargamento della base creditizia avevano fatto lievitare l’indebitamento di famiglie e imprese. Il rialzo dei tassi, a cominciare dalla Germania, aveva reso però il sistema svedese difficilmente sostenibile e aveva moltiplicato con estrema rapidità le sofferenze per l’incapacità di moltissimi debitori di reggere tassi più alti. La scelta del governo fu allora quella di introdurre la separazione fra bad company, in cui far confluire gli asset tossici, e good company, la parte risanata delle banche per mantenerle in vita e permettere loro di erogare credito, favorito da una forte politica espansiva e dall’uscita dal sistema dei cambi fissi. In altre parole, lo Stato svedese metteva mano alla struttura e al funzionamento del sistema bancario con un disegno complessivo che avrebbe dovuto evitare il ripetersi di situazioni analoghe. In tale ottica veniva creato anche un organismo indipendente rispetto alla stessa banca centrale per operare una valutazione degli asset che meritavano di essere salvati. Non si trattava quindi di un mero salvataggio ma di una visione proiettata verso il futuro, che mostrò la capacità di non pesare troppo sui contribuenti svedesi proprio per la scelta di selezionare gli interventi.

La crisi del 2007, nata come crisi limitata ad alcune tipologie di strumenti finanziari, si espanse enormemente fino a diventare una vera pandemia economica che investì tutto il sistema economico (finanza e industria) a livello globale. Il governo statunitense si spinse a intervenire negli assetti proprietari delle imprese.

La crisi del 2007 è stata originata, oltre che dalla già ricordata deregolamentazione, dall’idea che il rischio degli investimenti finanziari potesse essere cancellato attraverso la sua distribuzione tra tanti soggetti. La cartolarizzazione, la trasformazione dei crediti concessi dalle banche in miriadi di titoli finanziari, doveva servire, appunto, a distribuire il rischio, a renderlo meno pericoloso, consentendo aperture di credito a soggetti altrimenti non bancabili. Quando questa illusione della fine del rischio si è amplificata a tal punto da comprendere debitori fragilissimi, la bolla è scoppiata e i titoli finanziari generati dalla cartolarizzazione sono diventati, in brevissimo tempo, tossici, distruggendo valore e desertificando i bilanci di banche e aziende, affossate da infinite sofferenze. In tali condizioni, la presidenza Obama e la Fed hanno operato in profondità per acquistare i titoli tossici, trasformando il debito privato non solvibile in debito pubblico, di nuovo, monetizzato attraverso una sterminata produzione di dollari. L’intervento nella proprietà delle imprese e delle banche a opera dello stato è derivato da questa necessità di dare un valore ai titoli azionari e obbligazionari altrimenti destinati a scatenare ondate di fallimenti; un intervento che ha partorito il duplice effetto di appesantire le partecipazioni pubbliche nel sistema economico, solo in parte smobilizzate dopo la fine della fase acuta della crisi, e di ingrossare l’indebitamento federale. In questo senso, lo statalismo innescato dalla crisi del 2007 è stato la necessaria risposta alla sbornia della turbofinanza che pensava con l’ingegneria finanziaria di democratizzare i mercati ma che ha prodotto un brutale impoverimento; il dato più evidente, tuttavia, di una simile azione è rintracciabile nella sua sostanziale incapacità di affrontare il nodo decisivo della disuguaglianza sociale che, anzi, le politiche fiscali hanno accentuato.

I casi che abbiamo appena visto farebbero pensare che gli investimenti statali di mercato, nelle economie capitaliste (chiamiamole così per comodità), derivino dagli stati di grave crisi. Certo, la Francia di Colbert costituisce un’eccezione notevolissima.

L’idea che l’intervento dello Stato sia stato dettato dalle crisi del mercato è certamente una delle più convincenti per leggere le vicende dello statalismo contemporaneo che, assai raramente, ha avuto una propria spinta autonoma. Forse, piuttosto che a Colbert si potrebbe fare riferimento all’Italia giolittiana quando la strutturazione di una politica economica in cui lo Stato era presente sia in termini normativi, sia in materia di commesse, sia sul versante tariffario è avvenuta almeno in parte in forma autonoma rispetto alle tensioni di fine secolo e alla crisi finanziaria del 1907. In quella fase il miglioramento delle condizioni dell’indebitamento pubblico, rese possibili dalle rimesse degli emigrati e dalla mobilitazione del risparmio nazionale, permisero un disegno più complessivo di intervento statale che puntava a una modernizzazione del paese e all’ingresso compiuto in un sistema industriale.

Da questi casi – e da altri con caratteristiche simili – emerge che l’intervento pubblico è dettato da scopi diversi in contesti diversi. Proviamo a distinguerli per tipologie generali e a considerare se e come sarebbero possibili in Italia, nel contesto dell’Unione Europea: non una classificazione sistematica ma, piuttosto, una guida all’interpretazione del fenomeno. In una fase di crisi sistemica delle politiche economiche e della divisione internazionale della produzione, in Italia si discute (utilizzando categorie concettuali spesso imprecise) delle diverse soluzioni per i casi dell’ILVA e di Alitalia. In realtà, le situazioni di crisi sono molte ed eterogenee, ma queste sembrano emblematiche. Qual è un approccio teorico ipotizzabile e, in conseguenza, cosa si può fare?

Non penso possa esistere un approccio teorico ripreso dal passato e, forse, neppure troppo definito. Certamente lo Stato, e più complessivamente il settore pubblico, dovrebbe essere proprietario e gestore dei cosiddetti monopoli naturali, a cominciare dal cruciale patrimonio dei beni comuni rispetto ai quali la stessa idea di concessione deve essere attentamente regolamentata, a partire da una dimensione europea. Se lo stato avesse le possibilità di reggere un maggior livello di indebitamento grazie alle politiche monetarie della BCE, allora non sarebbe impensabile riportare in mano pubblica, non solo in termini di proprietà ma anche di gestione, tutti quei beni comuni i cui costi di utilizzo sono coperti da tariffe che non devono contenere più margini di remuneratività degli investimenti pagati appunto dalle tariffe stesse. Anche il digitale e le telecomunicazioni possono rientrare in questo perimetro pubblico, data l’assoluta natura strategica che stanno assumendo. Tim e Open Fiber, con il contributo della Cassa Depositi e Prestiti, possono essere strumenti per realizzare una direzione pubblica efficace. Alitalia è un caso a sé perché possedere una compagnia di bandiera non rappresenta più, assai probabilmente, una scelta strategica e la sua nazionalizzazione è costata e costa davvero troppo; si tratta di scelte che appartenevano a un’era diversa. Per Ilva, sono utili le raccomandazioni della Commissione Europea: solo con i fondi destinati alla transizione ecologica è possibile una soluzione che, comunque, ha bisogno di una regia pubblica, senza riportare in vita lo Stato imprenditore.

Nel corso dell’ultimo secolo, fin dagli anni Trenta, negli anni di pace e in quelli di guerra, i governi sono stati forti committenti per le politiche di sviluppo infrastrutturale e per gli armamenti. Inoltre, hanno finanziato progetti di sviluppo tecnologico che l’impresa privata non avrebbe potuto reggere finanziariamente e neanche ideare. In questo senso, il progetto Manhattan resta un paradigma e oggi, senza gli spin off universitari e la domanda pubblica nelle reti, probabilmente i miracoli tecnologici odierni non si sarebbero realizzati.

Come accennato, il digitale, l’intelligenza artificiale, le reti sono il nuovo settore strategico, ancor più alla luce dell’epidemia in corso nel pianeta. In tali settori deve essere concentrata una larga parte dell’investimento pubblico finanziato con il debito monetizzato. Si tratta di una presenza statale che è condizione di libertà e di democrazia, soprattutto di fronte all’affermarsi di potenze dai tratti autocratici che proprio sul digitale e sulle telecomunicazioni fondano la loro forza. Naturalmente questo insieme di investimenti pubblici ha a che fare con la costruzione e lo sviluppo dei saperi, legati alla formazione universitaria e alla capacità di sviluppare in modo democratico le eccellenze.

In un’ottica di consolidamento dello stato del benessere diffuso, in particolare nella sanità e nell’istruzione, è auspicabile che l’ente pubblico si presenti come committente e come gestore. Naturalmente, questo è solo un punto di vista che però in Europa – durante la Golden Age – è stato mainstream. La storia degli ultimi quarant’anni è andata in direzione opposta. In Italia, ma non solo: nel Regno Unito il Servizio Sanitario Nazionale, il mitico NHS di Beveridge presentato come emblema patriottico alle Olimpiadi londinesi del Dodici, è oggi il luogo dove ci si deve «rassegnare a perdere i propri cari». Considerati gli esiti visibili oggi, nelle economie di mercato quale modello può funzionare?

La sanità rappresenta, insieme ai monopoli naturali, al digitale e alla transizione ambientale, l’altro terreno in cui è indispensabile la presenza statale; una presenza resa ancora più necessaria dall’emergere delle epidemie sociali. Il sistema sanitario nazionale dovrà mantenere la propria vocazione universalistica abbinando però la tradizionale cura di acuti e cronici alla prevenzione e alla cura rapida dei nuovi fenomeni epidemici; un processo tutt’altro che semplice perché, per molti versi, implica due processi distinti, uno rivolto alla specializzazione delle cure, alla loro intensità, e uno caratterizzato dalla capillare presenza sul territorio. Ciò significa strutture di eccellenza di grandi dimensioni ma, al contempo, una rete sociale e territoriale diffusa e di prossimità. Unite alla grande ricerca e all’impegno sul versante dei farmaci, simili attività impongono un modello pubblico costosissimo che ha bisogno di due fattori fondamentali: una grande riforma fiscale in sede europea, con una dura lotta a elusione ed evasione, e un piano di indebitamento programmato, fuori dai criteri della contabilità europea, per finanziarlo. In questo senso, dimensione statale e dimensione pubblica europea sono inscindibili.

Nell’Italia dell’economia mista, le imprese di stato furono protagoniste della vita economica, nel Dopoguerra del miracolo economico. L’IRI ereditato da Beneduce, governato da tecnocrati capaci e dotati di senso dello stato, ha costituito una struttura indispensabile alla ricostruzione e all’affermazione internazionale del paese: lo stato, attraverso il filtro dell’Istituto (oltre che direttamente) controllava il sistema finanziario, le infrastrutture logistiche, l’industria pesante. Quella del carrozzone produttore di panettoni e pomodori pelati è la storia della fase ultima, caratterizzata dalla progressiva, montante, frenesia neoliberista. Oggi l’Italia sembra una nave senza nocchiero, in balìa della gran tempesta, dei corsari e dei suoi avidi cambusieri. Quale può essere il progetto di un rinnovato intervento statale, ammesso che sia auspicabile?

Non penso che lo strumento possibile del nuovo intervento statale sia una holding, sul modello dell’IRI, che possieda le partecipazioni proprietarie di larghe porzioni del sistema economico. Si tratta di un modello che non funzionerebbe per affrontare i problemi della miriade di imprese di piccole e piccolissime dimensioni, in questo momento in estremo affanno e, al contempo, cruciali per la tenuta dell’economia italiana. Non penso neppure che debba essere dilatato a dismisura il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, fidando sulla sua capacità di raccogliere risparmio diffuso e sulla sua prerogativa di non sottostare ai vincoli europei. Esistono già strutture più agili come Invitalia che assolvono, almeno in parte, a simili compiti. Ritengo invece che l’intervento dello Stato dovrebbe avvenire direttamente nel capitale delle imprese, negli ambiti strategici sopra ricordati, attraverso la presenza del Ministero dell’Economia come azionista di riferimento. È ovvio che questo implica una vera maturità della politica che dovrà assolvere al compito, in sede nazionale ed europea, di definire le strategie generali e di scegliere una classe di amministratori competenti e dotati di spirito di servizio. Per il tessuto del capitalismo molecolare italiano, invece, il percorso dovrebbe essere quello di un sistema di garanzie in grado di stare in concorrenza con il sistema bancario, senza appiattirsi o risultare subalterno agli istituti di credito, per i quali è fondamentale un sistema di controllo europeo.

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