Valerio Vallini, Poesie

Marco La Rosa

Tre Chiavi

Mi sono spesso vantato di essere un impoeta. Di non capire nulla, quindi, di poesia. Di non capire, perfino, perché ancora ci si ostini a scriverne.

Quando entrai nel Grandevetro imperava un ostracismo, per cui non si pubblicavano poesie. E ammetterete che, il più delle volte, passa per poesia un curioso fraseggiare, senza ritmo né musica, con a capo curiosi e talvolta immotivati. Per cui, come si burlava qualcuno, per un’oliva pallida si può delirare. Poi, leggendo un verso che è davvero un verso, tutta questo va a gambe per aria.

Ma veniamo alle Poesie di Valerio Vallini.

L’Autore non potrà pretendere che, di fronte a quella che è quasi una silloge del suo poetare, io riesca a spendere un giudizio compiuto. Non ne ho gli strumenti critici. Procederò quindi per sprazzi, parlando di tre poesie che mi hanno particolarmente colpito e che, in qualche modo (e qui rischio, ma se un critico, anche minimo e discutibile come me, non rischia, che critico è?) credo mostrino alcune delle possibili chiavi di lettura.

La prima poesia è Nel bosco (leggendo Ecclesiaste). Ecco: le parole non possono descrivere la realtà, che si pietrifica se si tenta di farlo. Quello che si può descrivere è il tentativo della descrizione, subito interrompendosi. E mentre si fa questo, mentre la poesia fa questo, ci si accorge, raggiungendo quasi una illuminazione zen, che tutto, improvvisamente, è uguale a tutto. E qui sta l’inutilità della descrizione e la sola cosa da fare è guardare e non dire.

La prima chiave è lo Stupore.

La seconda poesia è Pianure. Pianure non è una poesia, è un quadro. Di più: è un quadro nel suo dipingersi. Ed è struggente. Che sia un quadro lo denunciano le innumerevoli pennellate: “erba secca che si spande / sottrae colori […] gli uccelli si posano adunchi nei campi assolati […] C’è una barca sul lago ferma come fosse dipinta […] conchiglie candide come gessi […] strade colorate d’acqua […]. Ma alcune parole e alcuni verbi (sottrae, stranieri, fugge, disfatte, adunchi, trame, affonda, vendette, stanco, arrende, tristemente, finzione, male, prosciugandolo) è come se, mentre il poeta-pittore sta dipingendo, generassero un ritmo antitetico e facessero sì che quella stessa realtà oggetto della poesia avvizzisse e si disintegrasse, come il ritratto di Dorian Gray.

La seconda chiave è il Pessimismo, figlio dello Stupore.

La terza poesia è Educazione cattolica. Qui l’esegesi è semplice. Sarà sufficiente trascrivere qualche parola: “Tutto era chiaro allora […] Il male una lotta fra angeli e demoni / le preghiere a svoltare il corso delle cose […] Tutto appariva ordinato, lineare, come il mare / nell’eterno moto, come il sole”.

La terza chiave è il Rimpianto, figlio del Pessimismo. Anche se Rimpianto non è la parola esatta: si tratta più di un rimorso per avere capito.

Stupore, pessimismo, rimpianto. Dopo l’epica degli antichi padri, alla poesia sono rimaste solo due cose: dirci per sintesi lirica in un verso quello che i filosofi dicono in mille pagine e cantare le tempeste dei sensi.

Ecco, proprio l’erotismo, che pure non manca in queste poesie, trova il suo abbandono solo nella prima raccolta, Viaggio Obbligato, per poi ripresentarsi rivisitato, pensato, intellettualizzato anche in altri luoghi. Ci piace pensare che Vallini abbia da qualche parte poesie impubblicate, che nasconda in un cassetto una quarta chiave.

Valerio Vallini, Poesie (1980-2015), Edizioni Pieghe d’Arno, San Miniato (PI), 2015, pp. 198, € 10,00.

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