AUTOCRITICA DI SISTEMA di Cristian Pardossi

All’intervento di Bellini segue questo di Cristian Pardossi che volentieri pubblichiamo

 

Autocritica di sistema

Ovvero della necessità di distinguere i piani e di correggere la rotta.

È di tre giorni fa la notizia di indagini su presunte infiltrazioni mafiose nel valdarno inferiore, indagini che vedono coinvolti vertici imprenditoriali e figure istituzionali – locali e regionali. La detonazione questa volta sembra esser stata più forte delle precedenti (ahimè non è la prima indagine che mette in luce i tentativi di penetrazione della malavita organizzata nel sistema economico della zona) se si guarda il numero di commenti, post, messaggi privati che in queste ore corrono sui nostri dispositivi digitali. C’è un’intera zona sconvolta, che si scopre quasi improvvisamente vulnerabile a certi fenomeni, e che al tempo stesso reagisce preoccupata e indignata, consapevole dell’onestà del proprio – faticoso – lavoro. Preoccupazione che aumenta di giorno in giorno alla lettura degli articoli di stampa, e che riguarda in primis le lavoratrici e i lavoratori del settore, cui deve andare la massima vicinanza e l’attenzione delle istituzioni e di tutta la comunità.

Chi scrive viene da quella storia: padre per tutta la vita operaio in conceria, madre in calzaturificio per moltissimi anni, fino a qualche mese fa. Una storia come molti altri, da queste parti: sacrifici, levatacce, incidenti sul lavoro, crisi, casse integrazioni, fallimenti, e nei momenti cruciali l’amara constatazione che la categoria onnicomprensiva “produttori” lascia presto il posto a quelle di “operaio” e “padrone” – a conferma del fatto che il conflitto tra capitale e lavoro è ben lungi dall’essersi ricomposto e che smettere di chiamare le cose con il loro nome è il primo passo per abbandonare i più deboli a loro stessi.

Storia lunga, quella di questa zona. I primi segnali della nuova economia compaiono alla fine dell’Ottocento, poi le due guerre danno un’accelerata, infine l’alluvione del ’66 – con la devastazione di ciò che rimaneva del sistema mezzadrile – completa l’opera e lancia definitivamente il comparto del cuoio e delle pelli alla conquista della zona. Una storia tipica della “Terza Italia”, come l’avrebbe chiamata Bagnasco, quella delle piccole e medie imprese, in grado di configurare non solo un nuovo modello industriale ma un’idea di nazione, diversa da quella contadina e da quella della grande industria. Qui nasce uno dei più importanti distretti economici della toscana e dell’intero Paese, con la sua governance, con i suoi sistemi di regolazione sociale e – per un tempo considerevole – con una buona capacità di (ri)produzione di capitale sociale, cosa che ne fa una delle realtà più studiate della penisola. In particolare emerge molto presto – e per motivazioni che quelli più bravi di me spiegherebbero rifacendosi al filone di studi inaugurato da Robert Putnam – un protagonismo positivo degli enti locali e delle loro classi dirigenti, impegnate insieme al sindacato e alle rappresentanze degli imprenditori nel difficile ma ambizioso compito di programmare lo sviluppo della zona e soprattutto di confrontarsi con il “peccato originale” del segmento più importante del distretto: l’elevato impatto ambientale dei processi produttivi.

Tutta la storia di questa zona può essere letta in filigrana seguendo il tema principale della riduzione dell’impatto ambientale: dalle discariche passando per i depuratori, dagli impianti come Ecoespanso all’accordo di programma noto ai più come “tubone”. Nel mezzo ci sono le storie individuali e collettive di decine di migliaia di persone: operai, artigiani, imprenditori, amministratori locali che grazie al loro lavoro, alle intuizioni, agli investimenti, alle lotte, alle politiche pubbliche hanno fatto grande e ricca questa zona, portandola ai vertici delle economie mondiali. Non si esagera né si pecca di marxismo se si scrive che il comparto tra gli anni Settanta e gli anni Duemila ha dato forma a tutto ciò che gli stava intorno – anche a ciò che non era riconducibile alla sfera produttiva. Basti pensare allo sviluppo urbanistico di questo territorio: se al nord erano le grandi fabbriche a “farsi città”, qui da noi è stata la città a “farsi fabbrica”, pensando e programmando i suoi spazi – non solo quelli produttivi – in funzione delle esigenze del comparto.

Questo meccanismo di compenetrazione tra gli interessi del comparto e gli interessi generali della collettività è cresciuto negli anni fino al punto da far credere a molti – compresi coloro che hanno avuto, avevano e hanno responsabilità di governo locale – che i due interessi alla fine coincidessero perfettamente. È all’interno di questo tragico fraintendimento – che affonda le radici in anni lontani e che ha finito per trasformarsi in senso comune (ma ricordiamoci Manzoni!) e in cultura politica delle classi dirigenti locali – che ha origine il vizio “consociativistico” che col tempo ha spento il sano conflitto tra le parti e fiaccato la capacità della politica di governare i processi di sviluppo. A rendere più complicata la situazione ci si sono messe le crisi economiche internazionali, la nuova divisione internazionale del lavoro (che ha aperto la strada alla concorrenza di nuovi paesi), il progredire dei processi di automazione e – forse – l’assottigliamento di quel differenziale tecnologico che nei decenni precedenti aveva garantito a questo comparto importanti progressi sul versante della compatibilità ambientale dei processi produttivi. Tutti elementi che hanno contribuito evidentemente a rendere più pesante il costo dei processi produttivi e – soprattutto! – a ridurre i margini di profitto. Da qui le sempre più frequenti richieste di interventi ad hoc, deroghe, investimenti ulteriori – in molti casi anche legittimo, ma non sempre necessariamente coincidente con l’interesse generale come invece si è tentato di rappresentare.

Formatasi in questa cultura – che ha avuto un ruolo decisivo nella selezione della classe dirigente politica locale negli ultimi quaranta anni, anche a sinistra – e progressivamente lasciata a sé stessa dalla scomparsa di partiti degni di tale nome, la classe politica ha troppo spesso inconsapevolmente finito per subire una sorta di “condizionamento” nei confronti dei (ben più potenti) rappresentanti dell’industria, sviluppando quasi un atteggiamento di solerte subordinazione nei confronti delle loro esternazioni e richieste – sempre accompagnate dall’implicita prefigurazione di ricadute sull’occupazione e quindi sul benessere (condizionamento e subordinazione che – è bene sottolinearlo – non hanno coinvolto solo la classe politica ma più in generale le classi dirigenti di questa zona). In parte è comprensibilmente questo il motivo per il quale la politica anche a sinistra si è dimostrata sempre attenta alle crescenti richieste avanzate dagli imprenditori. Tuttavia una cosa è la ricerca del compromesso tra capitale e lavoro (e altre dimensioni che concorrono all’interesse generale) che ha caratterizzato i Trenta Gloriosi, ben altra invece è l’atteggiamento che negli ultimi decenni la politica anche a sinistra ha assunto nei confronti dei rappresentanti degli interessi del capitale. Un atteggiamento che ahimè si è fatto ancor più accondiscendente quando la sinistra ha perso il consenso delle classi popolari e ha carezzato l’idea di sostituirlo con il sostegno – soprattutto in zone come la nostra – di “quelli che contano”.

È in questo contesto che a mio avviso va collocata una parte dei fatti che ci sconvolge in questi giorni, e più precisamente quella che coinvolge i nostri amministratori locali. Lascio da parte le considerazioni sulla penetrabilità del sistema economico da parte della malavita: mi limito a dire che purtropppo la grande circolazione di denaro, la presenza di un settore a rischio come quello dei rifiuti e gli effetti di una crisi socio-economica rendono vulnerabile il nostro sistema e richiedono la massima vigilanza da parte di tutti, dalle istituzioni agli imprenditori, ai sindacati, al mondo associativo.

Torno però sui fatti che hanno colpito maggiormente le nostre comunità, ovvero il coinvolgimento tra gli indagati di alcuni amministratori locali e regionali stimati e apprezzati per il loro impegno. Qui, avviandomi alle conclusioni, una premessa è d’obbligo: nessuno può essere considerato colpevole prima di una condanna definitiva; non è un modo di dire ma un principio di civiltà giuridica che dovremmo imparare a far valere sempre. Sgombrato il campo da qualsiasi equivoco, voglio anche dire che a mio avviso, per le ragioni che ho provato a elencare sopra, questa vicenda può essere letta seguendo quattro livelli differenti. Il primo è quello relativo alle persone coinvolte: ho conosciuto e conosco personalmente tutte e tre le figure politiche coinvolte e non posso che unirmi al sentimento di stima e vicinanza che molti hanno sentito il bisogno di tributare loro in questo frangente. Il secondo livello invece è giudiziario: se ci saranno reati lo stabilirà la magistratura, per ora vale quanto detto poche righe sopra.

Ma sarebbe a mio avviso riduttivo chiudere qui il ragionamento, che ha bisogno di almeno altri due livelli di analisi: quello etico e quello politico. Ed è su questi due piani che quanto accaduto merita a mio avviso una stigmatizzazione netta, al di là di quali saranno gli esiti delle indagini. Perchè se alla fine la magistratura appurerà – come tutti noi ci auguriamo – che nel comportamento dei nostri rappresentanti politici non sono riscontrabili comportamenti illeciti né reati, è tuttavia vero che certi atteggiamenti che emergono dalle indagini in corso non possono esser mai considerati possibili seppur sgradevoli strumenti del mestiere di amministratore – a maggior ragione da questa parte dello schieramento politico.

Infine – e questo livello ci porta fuori dalle vicende dei singoli coinvolti nell’inchiesta – c’è il piano politico, dove questa storia segnala drammaticamente l’estrema debolezza della politica (ormai orfana di luoghi di confronto, studio, elaborazione e supporto all’azione amministrativa quali erano  i partiti, e privata di risorse pubbliche per il proprio agire) nei confronti dell’economia, soprattutto in contesti socioeconomici come il nostro. Una politica che per i motivi sopra esposti finisce per essere mite e mansueta pensando probabilmente di favorire così gli interessi generali – la tenuta dei livelli occupazionali, la ricchezza economica di un territorio – ma che in realtà, abdicando al suo ruolo di governo e di controllo, finisce per compromettere l’interesse della collettività a tutto vantaggio della parte più forte, rappresentata ancora una volta da quel capitale i cui interessi – fisiologicamente – non possono coincidere e non coicindono automaticamente e perfettamente con l’interesse generale. Per questo motivo, con l’auspicio che la vicenda giudiziaria possa risolversi positivamente per le persone coinvolte di cui conosciamo e apprezziamo l’impegno, la generosità e la passione, sul piano politico l’avvio dell’indagine e le prime notizie rese note rappresentano esse stesse un giudizio che chiama in causa non più solo i singoli bensì un intero sistema. Un giudizio che a sinistra in questa zona deve essere accolto con rigorosa e impietosa autocritica – troppo spesso mancata negli ultimi decenni così come in questi drammatici giorni velati di un imbarazzato silenzio generale – unita all’impegno ad avviare una riflessione serena e meno dogmatica sui limiti del modello di sviluppo locale e a rifondare su basi nuove un patto per il governo, lo sviluppo, la giustizia sociale e ambientale di questo territorio.

 

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