A PROPOSITO DI “PAESAGGIO” di Franca Bellucci

«Grazie, complimenti…

La virata verso la natura mi piace… ma sono anche più estensiva. Ricordate Emilio Sereni? Il paesaggio agrario è un’espressione delle tecniche storiche, non è… natura! (come forse ci si illude guardando “Il Buon Governo” a Siena). E ricordate Barry Commoner? “Il cerchio da chiudere” è tradito da decenni…  E ancora: il sotterraneo è fondamentale: la circolazione della vita e dell’acqua parla del profondo, non meno di quanto è superficie e sopra-superficie.

Io sono spesso toccata da come si fa coincidere il bello italiano con Umanesimo-Rinascimento: e non si dice quanto il Botticelli (e non solo lui) era turbato dalla sua stessa creazione del bello: se ad un certo punto scelse l’iconoclastia».

Questo è il mio commento al numero del Grandevetro dedicato al Paesaggio.  È il mio certo l’apprezzamento di una sorpresa felice, costituita dal numero attento alla natura. Insieme però, mi è venuto spontaneo di spronare ad allargare la visuale. Ma è lecito intervenire su un tema se non ci basiamo su competenze specifiche? La mia base è soggettiva, è il progetto intimo maturato nell’arco degli anni attivi che farei partire dagli anni del primo percorso universitario, intorno al 1965, e tenuto credo con continuità, innestandovi letture e figure.

Come riferirmi in breve a queste impronte? Rischierò l’approssimazione, e indicherò i miei incontri in un nucleo minimo di ricordi. Gli incontri avvenivano nelle conversazioni amicali e talora nelle notizie di un’editoria che, diversa dal giro e dall’offerta attuali, sembrava – forse davvero è stata in un periodo – contraltare all’imbracatura sociale e culturale che sembrava per lo più imbrigliare (ma gli squarci importanti c’erano: il crollo nei continenti di sistemi noti di colonizzazione, la Pacem in terris di Giovanni XXIII…). Era il tempo che, lasciando intatta la proprietà dei terreni, e riducendo le aree di colture sperimentali al Sud, avvalendosi quindi della dissoluzione sociale che in questa parte d’Italia conseguiva, si dislocavano processi industriali massicci a Nord. Distretti, strutture civili, degrado ambientale rapidissimo (è del 1976 il disastro di Seveso), nel nostro Paese: e intanto processi gravissimi confrontabili in tante parti del mondo, fra spostamenti e sfruttamento di popoli e masse in tanti continenti, con l’indiscriminato uso di risorse e diffusione di materiali chimici incontrollati. Ecco dunque che mentre leggevo i pezzi sulla rivista, affiorava una parte di quelle antiche letture, che ho anche utilizzato a fondo nei corsi che strutturavo per la scuola, quella scuola media, finalmente per tutti, che è stata la mia palestra umana e civile all’epoca. A questo livello attraversai in ogni senso La storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni, edito da Laterza nel 1961: facile impiegarlo nello studio di geografia italiana, ritrovandoci una nozione fluida di “paesaggio”, che innerva di vita e di storia l’utilizzo dei terreni attraverso l’agricoltura. L’autore incardina questa attività su molti versanti culturali: sulle forme della proprietà, sui sistemi giuridici, sulle organizzazioni di categoria, sui mercati dei prodotti ottenuti. La lettura era, lo è tuttora, coinvolgente e accessibile per tutti. Certo il fulcro è quello di uno studioso di larghe esperienze, la cui vasta cultura è risorsa che non scoraggia i lettori, cercati in quanto protagonisti di cambiamento politico, coincidente con le proposte del Partito comunista italiano di allora, in cui Sereni era una delle voci più ascoltate. Le pagine per altro attingevano ampiamente a fonti colte, come rappresentazioni pittoriche, miniature, testi di poesia, che l’insegnante, cioè io, considerava un lievito benefico nella programmazione. Certo oggi quella prospettiva non mi sembrerebbe sufficiente, se tornassi in classe per il gruppo delle discipline letterarie. Del resto i vari segmenti di cui Sereni teneva di conto sono cambiati, diversamente connessi con il mondo. Ma il concetto di interconnessione fra quello che per brevità definisco “natura” e quello che chiamo “progetto” resta come valido approccio: mi pare basilare, così come interrogarmi sulle datazioni dei progetti, magari sospendendo con una certa arrendevolezza le indagini. Il processo è un po’ analogo a quello che per abitudine all’etimologia faccio di fronte alle parole, che pure considero materia viva, legata ad una serie di fenomeni che fissano, trasformano, spostano i sistemi linguistici. È vero che l’interesse di Sereni sul paesaggio non contemplava il bios specifico nei soggetti di quella natura che gli uomini manipolano. Un ambito che era invece proprio il tema nelle ricerche di Barry Commoner, uno scienziato statunitense che ebbe un successo popolare anche in Italia con “Il cerchio da chiudere”, edito nel 1977 presso Garzanti. Anche lui studiava interrelazioni, ma proprio fra gli esseri della natura, evidenziando le catene biologiche e il danno che si crea quando un anello viene cancellato da un’azione, magari economicamente vantaggiosa, ma non reintegrabile in natura. Cresceva, insomma, una cultura di impronta ecologica che non consegnava più all’uomo la centralità, né nell’universo, ma neanche nella cultura.

So che dopo quei decenni gli studi si sono raffinati in ogni campo. È tuttavia da allora così frammentato il mondo delle convinzioni, che il modo della maturazione insieme, collettiva, che sia anche corretta e articolata, si è sfaldata. E la citazione di quegli episodi viene pronta. La ricerca ha acquisizioni ricchissime: ma incrementano molto più i saggi finalizzati alle carriere dei singoli che i progetti collettivi. Indubbiamente gli studi si riverberano nei media, sia quelli tecnologici che lo stesso passa-parola delle conversazioni, ma per frammenti, enclaves, periodi, mode. Il gusto magari si arricchisce di screziature, di emozioni. Ma può accadere, è la ricezione che ho avuto leggendo la rivista, certo con compiacimento, di desiderare che l’argomento si prolunghi oltre la cornice data, proprio accostando fra loro i diversi statuti dei molteplici settori culturali. Così, l’appagamento che viene dal contemplare un capolavoro si confronta con altre istanze conoscitive. Le domande spaziano dal processo in cui l’opera si realizza al modo, ai modelli, agli apporti del prodursi; e si estendono al problema, che io sento vivo, di come si esibisce l’io dell’autore o di come si eclissa, in fenomeni che fanno parte dell’arte, della coscienza degli autori, della più generale cultura. Voglio citare qui l’incontro, capitato lungo le mie linee parentali, con l’archeologo (scomparso un anno fa) Goce Angelicin Zura, studioso di pitture rupestri medievali in Macedonia del Nord, cultualmente “volute” come anonime se non acherotipe.

Forse ho sensazioni più inquiete, più fosche rispetto a come vediamo celebrarsi l’arte narrata. Spero di essere mossa dal desiderio di disegnare una complessità proporzionata ai risultati raggiunti dalla ricerca, evitando ogni retorica. A meno che non sia afflitta proprio … dalla retorica dell’antiretorica!

 

Ringraziando dell’amabile invito che Giovanni Commare e il Direttore mi hanno rivolto, invio un saluto cordiale e un augurio di buon lavoro a loro e a tutti gli studiosi che collaborano a rendere bella e interessante la rivista.

Franca Bellucci                                                                                                                   30 maggio 2020

 

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