Le quattro forme del potere | Piero Paolicchi

Dal numero 113 del marzo/aprile 2014

La psicologia sociale ha dato un suo contributo allo studio del potere come capacità di un soggetto di influenzare la condotta di altri. L’aspetto più interessante evidenziato è che il potere non è mai solo in coloro che lo esercitano, nelle loro caratteristiche e risorse, ma nella loro relazione con gli altri, che talvolta lo subiscono, altre volte lo accettano, o addirittura lo ricercano e lo producono. Nelle quattro forme distinte di potere, l’equilibrio delle forze che lo sostengono si sposta tra i due estremi della capacità di imporre la propria volontà con la forza o con la disponibilità di risorse materiali, e dell’ottenimento e mantenimento di una posizione di potere anche in assenza di capacità e competenze per esercitarlo.

La prima forma di potere è quella sintetizzata nella formula popolare del bastone e la carota. È la più semplice ed esplicita, e dipende dalla possibilità di erogare ricompense a chi obbedisce e punizioni a chi si oppone alla propria volontà. O almeno, di promettere le prime e minacciare le seconde. Ha però il limite di essere efficace solo sull’agire manifesto, e di richiedere un continuo controllo su chi subisce il potere. Si può esprimere infatti adesione a un capo, una chiesa, un partito o un gruppo, e comportarsi di conseguenza, solo per timore o per interesse, pronti a cambiare bandiera o casacca alla prima occasione. Niente a che fare quindi con le altre forme, fondate sull’adesione a una fonte di potere che risponde ai propri bisogni, o incarna i propri ideali e valori.

In questi casi, il potere è spiegabile solo ricorrendo a processi psicologici cognitivi e affettivi. Se si attivano questi, la fonte non si impone per forza propria, ma si alimenta di quella attribuitale dagli stessi su cui esercita il suo potere e che, anziché subirlo, lo ricercano, lo apprezzano, e addirittura lo venerano.

Una prima forma di questo tipo, in cui processi cognitivi predominano su quelli affettivi è il potere di competenza, esercitato da coloro che possiedono conoscenze o abilità che altri non hanno e di cui hanno bisogno. È il potere dei medici, degli avvocati, dei burocrati, degli esperti in qualsiasi campo, che vengono a trovarsi in una situazione del tipo sacerdote-profani nel rapporto con chi ricorre ad essi per aiuto. Il potere dipende direttamente dal dislivello delle conoscenze. Come osservava Socrate, se qualcuno vi affibbia un asino invece di un cavallo, non dipende tanto dalla sua abilità di venditore, quanto dalla vostra ignoranza di cavalli e asini. Perciò, dagli antichi sacerdoti e scribi alle moderne sette religiose e caste professionali, tutte le grandi o piccole oligarchie del sapere cercano di impedirne la diffusione all’esterno, e lo gestiscono al loro interno secondo rigidi confini tra livelli gerarchici.

Una seconda forma è quella che nella tradizione degli studi psicologici e sociologici è legata al concetto di leadership. In un primo momento il fuoco dell’attenzione è stato sulle caratteristiche del leader e sul potere che sarebbe in grado di esercitare in funzione di sue personali qualità. Ma nel tempo è risultato sempre più evidente che “il leader è funzione del gruppo”, cioè che conquistare e mantenere la posizione di leader dipende dall’essere in grado di percepire e riflettere i bisogni di coloro che lo riconoscono per tale. A tale scopo concorrono sia i risultati che il leader contribuisce più di altri a raggiungere, sia la sua
capacità di proporsi come ideale con cui gli altri si identificano. Qui valutazioni razionali e coinvolgimento emotivo si intrecciano a produrre quello che possiamo definire potere di identificazione.

Una terza, infine, deriva dal fatto che tutti i gruppi umani devono stabilire criteri di valutazione per le tante pratiche che non possono essere lasciate al libero gioco delle preferenze individuali perché ciò impedirebbe il normale fluire delle relazioni cooperative da cui dipende la sopravvivenza degli individui e del gruppo stesso. Ogni gruppo definisce perciò un insieme di criteri collettivamente condivisi, istituiti
a livello locale, per cui certe pratiche sono valutate non solo come efficaci o inefficaci, ma anche come buone o cattive, desiderabili o vietate. Nel passaggio da una generazione all’altra, attraverso il processo di socializzazione, alcune tra queste pratiche non diventano semplicemente routines preferibili ad altre, ma modi normali, naturali, indiscutibili e immodificabili di agire e di relazionarsi con gli altri. Alcune diventano addirittura sacre, in quanto gli è attribuita un’origine sovrannaturale, così che la loro violazione provoca sentimenti di colpa indipendenti da una condanna esterna. Il carattere di necessità, naturalità, o addirittura sacralità delle istituzioni si riverbera su chi le rappresenta o comunque opera secondo il loro dettato, dai genitori agli insegnanti, dai sacerdoti ai rappresentanti dell’ordine e ai governanti. La sottomissione al loro potere dipende dalla loro posizione entro un sistema gerarchico collettivamente condiviso, indipendente in larga misura dalle specifiche qualità della persona. Tra i dieci comandamenti c’è quello di onorare sempre e comunque il padre e la madre, non soltanto se se lo meritano, e in alcuni regimi monarchici il potere passa anche a discendenti che per le loro qualità non meriterebbero neppure di governare un condominio.

Naturalmente, i tipi di potere descritti sono modelli ideali che non si presentano nella realtà, per così dire, allo stato puro, ma con ibridi in cui si combinano in varia misura elementi dell’uno o dell’altro, cosicché il potere-influenza tra individui si esercita in combinazioni variabili dei diversi tipi, con efficacia maggiore quando più fattori agiscono coerentemente per sostenerlo. Anche chi conquista il potere con la forza cerca sempre di mantenerlo e consolidarlo proponendosi come uomo della Provvidenza per la soluzione dei problemi di tutti, e come modello ideale, oggetto di un vero e proprio culto per i suoi seguaci, trasmesso e consolidato nelle nuove generazioni attraverso i processi di socializzazione.

Famiglia, scuola, associazioni, gruppi di pari, sono i canali tradizionali in cui fluiscono gli umori della vita sociale nelle sue diverse dimensioni, tra cui anche la dimensione del potere, sempre presente in qualsiasi relazione umana, da quelle di coppia a quelle familiari, a quelle nei gruppi di lavoro o amicali. Nel più ampio orizzonte sociale, tuttavia, ai processi di interazione diretti si sostituiscono quelli indiretti, in cui assumono particolare peso i fattori della quantità di risorse da erogare (in denaro o in altri vantaggi) e di strumenti per raggiungere il maggior numero possibile di “bersagli” su cui esercitare la propria influenza. Questa possibilità è tradizionalmente affidata al rito religioso, che evocando simbolicamente un potere superiore sacro, rafforza quello del sacerdos che officia. E analoga funzione è svolta da quei riti secolari che sono i grandi raduni, le adunate oceaniche in cui il numero dei partecipanti, evoca e rafforza la fonte del potere che in questo caso coincide con l’officiante.

Oggi la funzione del rito è in buona parte svolta dai mezzi di comunicazione di massa, la televisione e la rete. La prima è funzionale ai tipi di governo in cui, secondo la classica definizione di Aristotele, il potere sovrano è esercitato da uno solo o da pochi, la monarchia e l’aristocrazia. La rete lo è piuttosto al terzo tipo, in cui il potere è esercitato dai più, o democrazia. Ciò non toglie, come il filosofo precisava, che i primi due possano degenerare nella tirannide e nell’oligarchia, il terzo nella demagogia. Il potere che non usa scopertamente la forza non fa tuttavia meno danni a chi lo subisce. Anche in un sistema formalmente democratico, se non ci sono quelli che ti vogliono appioppare un asino al posto di un cavallo sotto la minaccia delle armi, non mancano mai quelli che tentano di farlo persuadendoti che è solo per il tuo bene. E se tu non ti armi di capacità critica, rimani comunque suddito, sotto-posto.

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