Maschi d’Italia | Maria Beatrice Di Castri

dal numero 103 del marzo/aprile 2012

Cosa c’entra il successo di Tarzan, e della sua selvaggia mascolinità, con i bicipiti di Mussolini nella “battaglia del grano”? O il piccolo balilla in uniforme con i festini di Palazzo Grazioli? Sandro Bellassai, ricercatore di storia contemporanea presso l’Università di Bologna, nel suo ultimo saggio L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea (Roma, Carocci, 2011) ben ci spiega che, senza netta soluzione di continuità, l’ideologia del virilismo, ossia l’esasperazione dei tratti tradizionalmente associati alla mascolinità e alla sua virtus, ha attraversato prepotentemente la storia italiana dell’ultimo secolo:
dalla priapesca e aggressiva fallocrazia fascista, fino al ben più clownesco “celodurismo” leghista, l’imporsi di tale modello ha accompagnato, per contro, la crisi profonda e irreversibile del
dominio patriarcale. Detta ideologia, dunque, tanto più retoricamente costruita e pubblicamente esaltata quanto più strumentale al discorso politico e brandita come risposta alla crisi della modernità, può insomma assurgere, per parafrasare la nota definizione del fascismo proposta da Gobetti, al ruolo di autobiografia della nostra nazione.

Analizzando con acume e finezza il profondo intreccio tra trasformazioni della società e costruzioni dell’immaginario collettivo, Bellassai ripercorre alcune tappe salienti della storia politica, socio-economica, culturale dell’Italia post-unitaria: dalle retoriche patriottarde dell’imperialismo di fine Ottocento al modello autoritario del fascismo, nella cui roboante enfasi virilista, come ebbe a sottolineare (benché alquanto a posteriori) il brillante sarcasmo di Gadda,
in Eros e Priapo, erano “maschie” perfino l’ovario e le trombe di Falloppio, fino agli anni del boom economico postbellico e all’inarrestabile declino del dominio maschile, e ancora ad una
disamina degli ultimi due decenni.

Nell’epoca dell’imperialismo e del colonialismo già emerge il nesso inscindibile tra mascolinità e razzismo, che non va addebitato solo alla brutale continuità del regime fascista: quest’ultimo, con il suo apparato di propaganda, le sua feroci pratiche di sterminio, le esperienze concentrazionarie, l’ignobile disparità giuridica riservata alle popolazioni autoctone e ai meticci, non farà che amplificare un contenuto razzista e discriminatorio già ampiamente diffuso in epoca liberale. Ché in un’epoca di enorme avanzamento nei diritti civili e di affermazione di ideologie che proclamano l’uguaglianza tra gli uomini, il potere rinsalda il proprio consenso affermando, più o meno esplicitamente, complice l’antropologia positivista, che “tutti gli uomini sono uguali ma non tutti gli esseri umani sono uomini” (p.41).

Mentre crescono i movimenti femministi in Europa, l’avanzata delle donne viene percepita come rischio di una femminilizzazione della società, prova tangibile del potenziale “degenerativo” del mondo moderno: l’incubo di una “svirilizzazione” dei rapporti sociali ed economici, che può scalzare dal piedi stallo la gerarchia tradizionale dei generi, intacca, nella percezione diffusa, il senso profondo dell’identità maschile; avvertendosi barcollante sulla china di un baratro storico senza precedenti, l’uomo risponde con un rilancio della virilità in ogni suo aspetto, sia materiale che simbolico, dando luogo ad una nuova e più aggressiva forma di misoginia (che si avvale, oltretutto, di un apparato pseudoscientifico teso ad accreditare, con infondate indagini antropometriche e cliniche, la tesi dell’inferiorità biologica del sesso femminile). In questa fase tardo-ottocentesca di “nevrosi da modernità”, con il suo stress, lo sviluppo di alienanti agglomerati industriali, la proletarizzazione di artigiani e contadini – e il timore diffuso dell’impotenza causata dalla fatica eccessiva e dallo spaesamento – il virilismo diventa il formidabile “laboratorio di una rilegittimazione di massa del principio gerarchico” (p.49) e spiana così la strada ad un complessivo rimodellamento della società in termini fortemente autoritari.

La traduzione in termini di genere dell’identità nazionale – virile, appunto -, giustifica da un lato il suo intrinseco diritto alla supremazia, dall’altro rafforza i codici tradizionali della mascolinità più militarista: vigore fisico, abilità tecnica, coraggio, disprezzo del pericolo e della stessa vita.

Il fascismo raccoglierà, portandola ad un livello di ossessivo parossismo, questa eredità, dando luogo ad un tentativo organico (benché non scevro da inevitabili contraddizioni) di conciliare un virilismo esasperato – con tutto il suo contenuto, nuovo e antico, di sopraffazione, disprezzo della donna, esibizione dei muscoli e delle armi e diffidenza o spregio per la funzione critica dell’intellettuale – con la modernità, di riproporre le gerarchie tradizionali nel nuovo orizzonte
della civiltà di massa, ambendo a “proiettare nel futuro l’idea di una società strutturata intorno alla disuguaglianza e alla legge della forza” (p.63).

Bellassai indaga in questa chiave i vari aspetti della propaganda, che costruisce una propria mitologia arruolando ad usum delphini ogni possibile ripescaggio dall’immaginario collettivo:
dalla virilissima Roma, al mito di una mascolinità d.o.c. primigenia, incarnata nello stesso corpo del duce, alla mistica della guerra come rigenerazione rivirilizzante del popolo.

Con la fine della guerra, gli anni Cinquanta, il boom economico questo modello maschile non teneva più. Ma, come già colse in modo esemplare Pasolini, più che la riconquista di spazi
democratici e le istanze emancipative che sfociarono nel progressivo miglioramento della condizione operaia e femminile, fu l’imporsi di nuovi modelli di consumo a produrre il vero e duraturo cambiamento nella società italiana; e a far porre definitivamente in soffitta anche quella mascolinità tanto ingombrante quanto faticosa da interpretare, a vantaggio di un modello di virilità magari meno eroico ma certo più confortevole e sicuro.

Bellassai studia in proposito l’imporsi, a partire dagli anni Sessanta, dei nuovi linguaggi pubblicitari, che denotano il crescente protagonismo femminile nel direzionare le scelte di consumo – che sottrae così ulteriore terreno all’obsoleta amministrazione patriarcale, in un contesto dove si va diffondendo la famiglia nucleare – e i nuovi stereotipi; all’uomo non resta che compensare il serissimo e definitivo colpo al virilismo godendo appieno egli medesimo i vantaggi della tecnologia moderna e del benessere consumistico. Su quest’uomo, garbato, gentile, urbano, che mentre si afferma nella carriera professionale, armeggia con gli elettrodomestici e comincia a
prendersi cura della prole, per contrastare lo spettro inconscio di un rischio larvato di femminilizzazione, agisce ancora una volta l’iconografia pubblicitaria, che esalta lo specifico della
bellezza maschile e lancia prodotti di cosmesi for men.

Negli anni ‘90, era dell’esponenziale crescita della comunicazione mediatica e dei consumi, tramontato qualsiasi sogno di egemonia maschile (malgrado il perdurare di molte discriminazioni di fatto) si assiste da un lato a rigurgiti di mascolinità misogina e aggressiva, basati su un intramontato plebeo senso comune e però non supportati da un’ideologia esplicita (che non sarebbe più difendibile); dall’altro, mentre si moltiplicano gli ignominiosi esempi di reificazione del corpo femminile, anche sul corpo maschile si appuntano i riflettori: come se nella sua esibizione e risemantizzazione quasi come genitalità pura, ridotta a merce (e la pubblicità fiuta ottimi profitti nella riproposizione di un nuovo ideale di prestanza fisica maschile), si cercasse si imporre una nuova, visivamente incisiva, affermazione della virilità.

Linguaggi e modelli recenti mettono in guardia sul fatto che, malgrado le esperienze di autocoscienza maschile e il generale progresso – pur tra sacche retrive di resistenza – nella parità tra i sessi, ogni tanto rispunta, in forme esibite, la frustrazione del “maschio virile”, bisognoso di certezze identitarie e di potere. Come lo stesso incredibile teatro del “bunga-bunga” della recentissima storia italiana conferma.

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