NON SONO UN NONVIOLENTO di Angelo Baracca

Discussione su violenza e nonviolenza. La replica di Angelo Baracca. 
Car@ in indirizzo, a chi sia interessato,
finora mi sono astenuto dall’intervenire nelle discussioni relative al mio articolo di critica alla nonviolenza, perché quello che mi interessava era di porre in termini espliciti il problema e suscitare appunto un dibattito, nel quale il mio parere è solo uno dei tanti. Neanche ora ho intenzione di repliche dettagliate, d’altra parte non mi sento neanche di formulare risposte personali a coloro che si sono espressi (non certo, sia chiaro per disinteresse verso di loro, ma perché non troverei neanche il tempo): proverei invece a collegare una replica collettiva su alcuni soli punti, che vorrei riuscire a fare BREVE, ma forse non ci riuscirò, e per questo aggiungo ai destinatari anche alcuni che hanno scritto in altre sedi, perché mi sarebbe impossibile rispondere individualmente, e per una “contaminazione” collettiva. Le mie repliche non sono certo esaustive, altrimenti dovrei scrivere un libro, e poi … chi le leggerebbe?
(1) A Olivier rispondo che apprezzo certo il suo sforzo di definizione più precisa, ma a parte le osservazioni di Giorgio Ferrari che condivido e non riprendo, a me sembra un piano che rimane astratto, un po’ come un Codice, non calato nella viva realtà della vita delle persone e delle vicende sociali. Non si capisce ad esempio cosa risponde sugli esempi che intenzionalmente portavo (in realtà trascurati da quasi tutti), la Rivoluzione Cubana, l’intervento militare di Cuba in Angola: possono non essere per molti esempi allettanti, ma per me sono (non gli unici) dirimenti. Continuo a essere fermamente convinto che i barbudos con miseri fucili a fronte di artiglieria e aviazione di Batista, abbiano in qualche modo “presi di sorpresa” gli USA, che dall’intervento del 1998 avevano tenuto sotto controllo militare diretto o indiretto Cuba, e sono convinto (anche se la storia non si fa con i SE, è quella che è stata fatta dagli uomini e donne in carne e ossa) che una ipotetica lotta nonviolenta (della quale non c’era neanche l’ombra) avrebbe liberato Cuba. Del resto quello che sta accadendo in AL mi sembra la prova: e vorrei osservare che se non ci fosse stata la Rivoluzione Cubana penso che sarebbe stata per lo meno diversa la fase di rinnovamento dell’AL nei passati due decenni, della quale Cuba è stata un assoluto punto di riferimento (per non parlare della cooperazione medica di Cuba, che ha fatto conoscere “il medico” a moltitudini che non l’avevano MAI visto, e avrebbero continuato a non vederlo). Non mi sembra in tutta franchezza risultati che si possano attribuire alla nonviolenza: se qualcuno si pronunciasse lo gradirei).
Alcuni ripropongono l’esempio di Gandhi: io non sono la persona più esperta. Ma osserverei che i risultati conseguiti dalla Rivoluzione Cubana mi sembrano più duraturi ed affettivi di quelli della decolonizzazione dell’India (riconosco il paragone carente per la differenza di dimensioni, condizioni storiche e sociali). Vorrei però riportare un passo di un messaggio personale di Giorgio Ferrari (che non me ne vorrà):
“Potrei ricordarti che Ghandi non disdegnò affatto le rivolte violente dei suoi
seguaci quando queste (giustamente) si verificavano e poco si dice
dell’impronta vessatoria (praticamente razzista) che ebbe verso i popoli
africani durante la sua permanenza in Sud Africa (The South african
Ghandi:streatcher-bearer empire edito dalla Stunford University press
https://www.sup.org/books/title/?id=26014).”
(Per inciso ho cercato di consultare qualche bio di Gandhi in internet, e non mi sembra che facciano cenno di questo).
(2) A Moreno – con il quale condivido da anni l’impegno pacifista – replico poche cose. A me sembra un po’ ozioso l’argomento della presenza di impegni nonviolenti nella Resistenza: alcuni li conoscevo altri no, ed è certo opportuno che se ne parli, ma non mi sembra che rovescino la sostanza della Resistenza come lotta Armata al nazismo, parlare solo di questi stravolgerebbe il senso della Resistenza.
Ma questo filone della nostra storia è rimasto presente e importante.
Le tirarono di nuovo fuori dalle cantine nel 1960, io c’ero quando il tentativo di Tambroni di restaurare un regime fascista generò una vera rivolta nazionale, la gente non si sedette certo in terra ad aspettare di essere ammazzata dalla inaudita violenza poliziesca. Poiché dubito che molti fra i partecipanti a questa discussione ricordino questi fatti, copio un passo dell’articolo di Franco Astengo in Contropiano, http://contropiano.org/documenti/2016/06/30/genova-1960-la-rivolta-antifascista-081088):
“Il 30 Giugno 1960 Genova scendeva in piazza per respingere il tentativo fascista di svolgere il proprio congresso nella città medaglia d’oro della Resistenza: seguirono giorni di grande tensione e mobilitazione popolare in tutto il Paese, con una forte repressione poliziesca: vi furono 5 morti a Reggio Emilia, a Roma i carabinieri a cavallo caricarono i partecipanti a una manifestazione antifascista a Porta San Paolo ferendo deputati comunisti e socialisti, vi furono altri morti a Palermo e a Catania.” Qualcuno ricorderà la canzone “Morti di Reggio Emilia uscite dalla fossa tutti a cantar con noi Bandiera Rossa”.
Queste vicende sono carne – e sangue – della nostra storia, cancellarle perché ci furono violenze equivale letteralmente a falsificarla! E mi permetto di pensare che Gramsci sarebbe stato del tutto d’accordo, io non sono per nulla un esperto di Gramsci, ma guardiamoci dal dare un senso generale a frasi singole, o decontestualizzate.
Moreno ricorda poi il Rojava: ma perché allora celebriamo Orso che prese le armi per il Rojava? Vorrà dire che vi sono casi in cui ne riconosciamo la necessità! Del resto al recente attacco selvaggio di Erdogan qualcuno fra chi scrive si sarebbe opposto sedendosi per terra in atteggiamento nonviolento? O pensiamo in modo schizofrenico?!

Nessuno rivendica la necessità sempre e comunque del ricorso alla violenza: mi sembra che siano piuttosto i nonviolenti a volerla escludere, e dico “a priori” se non riconoscono i casi storici in cui è stata necessaria.

Non è un po’ un “mettere le braghe” alla Storia?
Ma ancora, e ultimo. Il popolo palestinese (non ripeto Giorgio Ferrari) le ha provate tutte, violenza, nonviolenza, accordi, farsi impallinare dall’esercito sionista, scioperi della fame, ma il mio tristissimo parere è che non si libererà se non accadrà qualche evento ESTERNO, che ora non so neanche immaginare (perché la Storia è imprevedibile), che imponga un cambiamento politico dello stato sionista, o una sua radicale trasformazione (che oggi mi appare assolutamente utopica), o un cambiamento per ora impensabile dell’opinione pubblica israeliana.
De resto – e ripeto un esempio che ho fatto dall’inizio – l’apartheid sudafricano sarebbe stato esteso a tutta l’Africa se i cubani non fossero intervenuti sconfiggendo con gli angolano l’esercito “bianco”, e credo che nessuno possa dire se una rivolta nonviolenta in Sudafrica – che nel 1975 e anni seguenti mi sembrerebbe assolutamente inimmaginabile – sarebbe stata possibile e potesse avere avuto un esito positivo (a parte che ancora oggi le deriva del regime sudafricano mi sembra ben lungi dall’avere raggiunto il risultato).
(3) Passo a brevi considerazioni sull’articolo, che ho appunto allegato, di Antonino Drago.  Io non ho mai avuto molte simpatie per le statistiche. Mi piacerebbe però sapere quali casi storici concreti sono stati considerati, e quali eventualmente esclusi, nel fare questa statistica (o conteggio, se si vuole). I casi che ho citato sono stati presi in considerazione? Le cosiddette “Rivoluzioni arancioni” sono state considerate? Come casi di successi?
Replico comunque solo che posso anche non avere difficoltà ad accettare che le rivolte nonviolente abbiano registrato più esiti positivi di quelle violente, io non assolutizzo affatto la violenza. Ma il punto qui non è questo. È riconoscere che vi sono situazioni nelle quali rivolte nonviolente non sarebbero neanche state possibili, e casi nei quali comunque non avrebbero avuto successo.
(4) Non traggo ovviamente conclusioni. Piuttosto constato (e non mi stupisce per la mia esperienza) una netta divaricazione, da un lato fra coloro che negano (secondo me astraendo dalle concrete situazioni storiche e sociali) se non la legittimità, almeno la convenienza del ricorso alla violenza, nelle sue tante forme. E dall’altro fra coloro che – senza idolatrare il ricorso alla violenza o alle armi – non lo esclude, e ritiene che la Storia ne mostri casi incontrovertibili (come dimostri casi in cui è stata controproducente). Il punto è di non essere dogmatici.
Ringrazio ancora tutti, scusandomi per gli interventi che non ho qui considerato (In particolare Palidda, col quale ho altri contatti e concordo), a mio parere si stanno chiarendo le posizioni.
Quanto a me non avrò d’ora in poi problemi a dichiarare pubblicamente che “non sono un nonviolento”

4 Commenti

  1. Olivier Turquet ha scritto:
    Caro Angelo,
    Credo che tu non abbia colto il senso del mio intervento e mi dispiace.
    Chiedi analisi storiche ma dimentichi che la storia va nelle direzioni che le esprimiamo. È evidente che la storia che ci raccontano è la storia della violenza perché sono i violenti che raccontano la storia. Al tempo stesso non sappiamo cosa sarebbe successo se fosse stato possibile una soluzione nonviolenta. Per es se a Cuba non avessero ammazzato subito Marti.
    Essere nonviolenti significa cercare una soluzione nonviolenta e mi pare che sia quello che tu fai da quando ti conosco. Ovviamente con tutto il background violento che abbiamo non è facile e sicuramente richiede molto tempo.
    Però gli effetti devastanti delle numerose catene di violenza ci si parano sempre più chiaramente davanti e, francamente, non vedo cosa ci si possa trovare di buono.
    Per es la catena in Palestina può e deve essere spezzata solo dalla tremenda forza della riconciliazione e della verità, compensando e trasformando il tremendo accumulo di violenza esercitata li soprattutto negli ultimi 70 anni.
    Credo che la nonviolenza si stia facendo spazio come forza morale che, soprattutto, comprende in profondità che la violenza non è mai la soluzione migliore anche se, come dici tu, può essere stata la soluzione provvisoriamente necessaria in una certa soluzione.
    Infine lasciami dire che la riduzione della Resistenza alla lotta armata non fa onore ai numerosi resistenti che svolsero altre funzioni nella resistenza al nazifascismo e, inoltre, non da il giusto peso alle scelte dei popoli. Sono i popoli che hanno dichiarato la fine della seconda guerra mondiale ed hanno proposto le soluzioni da cui scaturiscono le ricostruzioni nazionali del dopoguerra , l’ONU, le carte internazionali e costituzionali e molte altre cose evolutive dall’umanità.
    Un abbraccio
    Olivier

  2. Antonino Drago ha scritto:
    Caro Angelo,
    è curioso che tu che sei famoso tra i fisici per un libro critico di meccanica statistica dici che non ami le statistiche.
    Comunque qui non si tratta di amare, ma di prendere nota dei dati storici (se il marxismo impara dalla storia) e ragionare su quelli. Per cui in tema di rivoluzioni ti invitavo a ragionare sui dati, non su quelle rivoluzioni che si amano di più, o a cui siamo più affezionati.
    Chiedi di saperne di più. La redazione della rivista ha tagliato l’indicazione della indagine di E. Chenoweth e M. Stephen: Why resistance works.The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, Columbia U.P., New York, 2011, lasciando l’indicazione della indagine più ridotta e grossolana di P. Ackerman e A. Karatnicky: How Freedom Won, Freedom House, Washington, 2005. I due grafici sono estratti dalla prima indagine. Il secondo libro nelle pagg. 22-23 dà l’elenco di tutte le rivoluzioni considerate (1972-2004); lo si può leggere tutto (56 pagg.) sul sito: https://freedomhouse.org/sites/default/files/How%20Freedom%20is%20Won.pdf.

    Io ho scritto un libro che nel primo capitolo riporta tutti i dati dei due libri e nel secondo capitolo li commenta dal punto di visto della teoria politica delle rivoluzioni: Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo. I fatti e le interpretazioni, Quale Cultura, Roma, 2010. Per una prima lettura ho allegato una sintesi dei dati del secondo libro e dell’articolo che le due autrici hanno scritto prima del loro libro. Comunque su youtube si trovano vari filmati di conferenze della Chenoweth.

    In merito al discorso, dico solo che è dagli anni ’70 che si distingue tra la non violenza soggettiva, quella oggettiva e quella strutturale (in corrispondenza ai tre tipi di violenza). Prima di tutto bisognerebbe capire a quale tipo di non violenza ci si riferisce, senza saltare dall’una all’altra. Con Gandhi è nata la non violenza strutturale e su questo tema i dati storici delle due indagini di cui sopra mi sembrano eloquenti per indicare uan realtà molto diversa dalla immagine della rivoluzione degli anni ’70.

    Cari saluti
    Tonino

  3. Giorgio Ferrari ha scritto:
    – Mi spiace che, in alcuni interventi, si sia inteso dare alla discussione
    e in particolare alla valenza del punto di vista nonviolento, una
    attendibilità “scientifica” in questo caso suffragata dal rapporto
    Freedom House. Storicismo ed antistoricismo sono sempre in agguato e
    poi, come dice Angelo, è sempre rischioso voler mettere le braghe alla
    storia. Io penso che le transizioni e le rivoluzioni (definizioni non
    necessariamente coincidenti) sono processi articolati e complessi, non
    una somma di eventi catalogabili in questa o quella categoria, per cui
    alla fine se ne può fare una valutazione parametrica con tanto di
    statistiche. Ma siccome è stato fatto, vorrei fare delle osservazioni
    puntuali.
    Il rapporto di Freedom House fornisce una casistica di cambiamenti
    politici avvenuti tra gli anni ‘70 e i primi anni del 2000 in 67 paesi
    del mondo. I cambiamenti politici (definiti transitions, cioè
    transizioni e non rivoluzioni come invece li definisce Drago) hanno come
    riferimento generico i diritti politici e le libertà civili non
    altrimenti specificate e/o quantificate. Non viene specificato nessun
    altro indicatore di cambiamento (per esempio tenore di vita,
    accessibilità ai servizi sociali, livelli salariali etc). La resistenza
    civica è per definizione assunta come nonviolenta e risulta decisiva, ai
    fini della transizione, in 50 stati su 67, ma non è possibile sapere se
    nella resistenza civica vi sono comprese anche organizzazioni,
    strutture, associazioni non inquadrabili nella nonviolenza per il
    fatto che non viene fornito nessun nome, né vi sono riferimenti a
    episodi significativi che hanno caratterizzato il processo di
    transizione. Alcuni esempi: la transizione del 1973 in Grecia è definita
    prevalentemente nonviolenta con un forte apporto civico e nonviolento
    che è stata la forza determinante. Nessuna parola sul ruolo dei partiti
    greci ne di quelli di altri paesi. In Grecia ci sono stati morti e
    scontri ferocissimi con la polizia e l’esercito (per non parlare di
    arresti e deportazioni che hanno colpito quasi esclusivamente i
    militanti di sinistra e il KKE era fuori legge). Ma poi vogliamo
    dimenticare le mobilitazioni in tutta Europa contro i colonnelli che non
    furono affatto nonviolente? Chi manifestava in Grecia e fuori dalla
    Grecia in quegli anni era più che predisposto a menare le mani. Stesso
    discorso vale per la Spagna anch’essa annoverata nel rapporto come
    transizione fondamentalmente non violenta: basta citare i garrotamenti
    di Burgos del 1974 con tutto il loro contorno di morti e rivolte e anche
    in questo caso di mobilitazioni violente in tanti paesi europei contro
    il franchismo. A me non piace e non interessa tirare la coperta dalla
    parte della violenza, ma trovo per lo meno capzioso il ragionamento
    opposto: quale tasso di violenza praticata è considerato ancora
    congruente con il punto di vista nonviolento? Qual’è il punto limite tra
    violenza e nonviolenza praticate per cui una transizione viene ascritta
    in questa o in quella categoria? La guerra civile o cosa? Vi ricordo che
    nemmeno gli storici, dopo anni di discussioni, sono arrivati a stabilire
    unanimemente se la resistenza italiana è da considerarsi una guerra
    civile!
    Voglio essere preciso: nella definizione dei termini (pag.46 e seguenti)
    il rapporto di Freedom House stabilisce che fra i casi di High level of
    violence va annoverato “a campaign of political killings and
    disappearances of many hundreds or more victims” che è esattamente
    quello che è successo in Grecia eppure quella transizione è classificata
    (pag 22) come “fondamentalmente non violenta”. Ancora, nella casistica
    che definisce la “transizione” sono previsti: “transition from monarchy
    to any form of civilian rule” che è quello che è successo nel 1973 in
    Grecia quando la dittatura ha promosso il referendum per l’abolizione
    della monarchia e la Grecia è diventata repubblica: quindi c’è stata una
    transizione dentro la dittatura!!?? Altra definizione è “ transition
    from authoritarian government to democratic rule” ma non è definito cosa
    si intende per governo autoritario, mentre la definizione “mostly non
    violent” corrisponde alla morte di una “manciata di persone”! Ultima
    annotazione: perché nell’elenco dei paesi in esame non ci sono Algeria,
    Angola, Cuba, Eritrea, Mozambico o l’Irlanda del Nord? Si dirà che per
    Algeria e Cuba non ci sono dati perchè antecedenti agli anni ‘70 (ma
    Freedom House è stata fondata nel 1941!) e comunque come la mettiamo con
    le altre situazioni?
    Credo che questo rapporto sia fortemente orientato come lo è del resto
    Freedom House e molte delle organizzazioni che vi fanno riferimento
    (Usaid, Open Society di Soros, NED National Endowment for democracy,
    IRI, etc sulle quali invito tutti e tutte ad approfondire ruoli e
    finalità:
    https://dedona.wordpress.com/2017/04/15/the-new-gladio-in-action-jonathan-mowat/)
    Non è un caso che il rapporto non faccia alcun riferimento a nomi e
    circostanze specifiche di organizzazioni (no profit, ONG, comunque
    riconducibili alla sfera nonviolenta) come lo sono state Otpor e Pora,
    la prima attiva in Serbia e Croazia e l’altra in Ucraina. Tuttavia
    volendo ricavare dal rapporto Freedom House un senso politico, credo che
    questo debba ricercarsi nella valorizzazione che viene fatta della
    “società civile”. E’ un concetto insidioso, a volte estremamente
    elastico, che viene usato molto spesso con interessata disinvoltura (sia
    da destra che da sinistra). Fu uno degli aspetti trattati in un
    seminario/convegno fatto nel 2005 a Lucca dal titolo “E’ finita l’epoca
    delle ONG?”,con la presenza di numerosi volontari e pacifisti italiani
    oltre a organizzazioni umanitarie dell’Honduras, Guatemala, Colombia ed
    Ecuador. La relazione che allego (solo per impossibilità di
    sintetizzarne il contenuto) tratta proprio del tema della società
    civile.
    Scusate la lunghezza.
    Un caro saluto
    Giorgio Ferrari

    • Antonino Drago ha scritto:
      – Caro Giorgio Ferrari,
      a me dispiace che di due fonti di dati satatistici si prenda quella elaborata più rozzamente, più ridotta e più vicina ad ambienti politici, tralasciando quella che fornisce dati elaborati scientificamente ed indipendentemente da enti politici.
      Dispiace che le citazioni non siano fedeli: per quel che mi riguarda non ho mai sostenuto quanto mi viene attribuito accomunandomi a Francesco Tullio, che ha cercato di mediare tra militari e gruppi non violenti (ricevendone finanziamenti per i suoi libri):

      < >

      Dispiace che qui si confonda la difesa civile (appendice della difesa nucleare nazionale, rifiutata dagli obiettori di coscienza sin dal 1973) e la difesa popolare non violenta (su cui ho scritto un libro; EGA, Torino, 2006), attribuendo tutto ad una società civile definita con alcune (molto poche!) esclusioni.
      Dispiace che non si dica che quel Comitato (non Commissione) è nato grazie alla Campagna non violenta di obiezione alle spese militari, la quale ha portato alla legge 230/1998 sull’addestramento degli obiettori ad una “difesa civile non armata e non violenta”, con tanti aggettivi per distinguerla con precisione da quella militare.
      Dispiace che il Centro Interuniversitario DI RICERCA per la Pace E LA MEDIAZIONE DEI CONFLITTI sia stato solo un organo formale; casomai Francesco Tullio è stato per qualche anno docente a contratto all’Università di Siena.

      Vogliamo discutere riferendoci a fatti concreti, documentati, e non a nostre impressioni personali?
      Ad es. vogliamo discutere il dato delle vittorie delle rivoluzioni (o se Ferrari preferisce le terminologie sfumate delle autrici: campagne di resistenza) non violente che hanno vinto: quattro su cinque, contro quelle violente: una su quattro?
      Lelio Basso diceva che lui (come tutti i capi marxisti, compreso Lenin; vedasi articolo di Adam Schaff su J. History of Ideas, 34, 2, 1973, 263-279) era a favore della non violenza, intesa come “via democratica”, ma non la vedeva appropriata alle lotte del Sud America (Vedasi il suo intervento nel libro Nonviolenza e Marxismo, Feltrinelli, Milano, 1981).
      Oggi, a consuntivo, possiamo dire che i fatti gli hanno dato ragione? O che piuttosto i popoli dell’America Latina hanno saputo condurre con successo le loro lotte in altra maniera dalle guerriglie?
      E che quindi nella storia del secolo scorso il marxismo non ha avuto il monopolio delle lotte alternative al potere costituito (tanto più a quello capitalista e a quello imperialista)?

      Cari saluti
      Antonino Drago

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