Per un nuovo modello di università | Gianluca Bonaiuti

dal numero 105 del marzo-aprile 1990

Le facoltà universitarie dell’ateneo fiorentino si sono trasformate nel corso degli ultimi mesi, salvo alcune eccezioni, in veri e propri “opifici” del sapere accademico, in cui, in una proliferazione continua di proposte, sono state rimesse in discussione – tutte le componenti del mondo universitario, con le loro funzioni, i loro disagi, le loro inaccettabili latitanze.

Dopo tanto fermento, terminate le occupazioni, giunge un momento, naturale, di ripensamento anche critico del lavoro svolto. Sondare tutte le istanze propositive emerse da tanto lavorio di menti risulta assai problematico, soprattutto in considerazione della scarsa coordinazione tra le facoltà e dell’atomizzarsi, per molti versi, del “movimento” dopo la conclusione dell’assemblea nazionale tenutasi a Firenze alcune settimane fa.

In ragione di tale frammentazione in sede decisionale, si rende necessaria una operazione di sintesi delle proposte, laddove è possibile, ai fini di una esposizione quanto meno organica se non esaustiva. Il dibattito interno al “movimento” è risultato indubbiamente fecondo, e una certa disomogeneità d’intenti non ha impedito che dentro le singole facoltà fossero affrontate quelle problematiche che hanno dato una ragion d’essere al movimento stesso.

In conformità con la centralità del problema, la questione più dibattuta è stata quella relativa al d.d.l. Ruberti, al rapporto tra cultura accademica ed impresa privata, ed alla conseguente ridefinizione dei ruoli nella gestione di tale rapporto, sul terreno più generale dell’autonomia universitaria. La discussione ha prodotto una profonda lacerazione in seno alla compagine studentesca ed ha registrato esiti differenti a seconda delle diverse facoltà.

Il dibattito è maturato su di un comune senso di insoddisfazione per le risoluzioni approssimative offerte da Ruberti in materia, che, se nelle intenzioni manifestate dallo stesso ministro, volevano porre rimedio, regolamentandola, all’immissione “selvaggia” di denaro privato nell’attività di ricerca, nella realtà rischiano di produrre quale unico effetto una tanto deprecabile mercificazione del sapere. Con danno soprattutto per quelle branche dell’attività didattica che risulterebbero inservibili nelle logiche d’impresa (discipline umanistiche e affini), o per quegli istituti geograficamente localizzati in aree che non godono di una florida attività industriale o comunque di un’economia ricca.

Così se da parte degli studenti si è dimostrato un accordo di massima sull’attuazione dell’autonomia universitaria, le riserve semmai sono legate alle modalità di tale attuazione, un profondo dissenso è stato espresso in merito alla gestione, così come ordinata dal d.d.l, dei possibili finanziamenti privati per la ricerca. Tale dissenso non si è però manifestato secondo una linea univoca di rivendicazione alternativa, ha registrato bensì la formulazione di due opzioni differenziate, formalizzale poi, in occasione dello svolgimento dell’assemblea nazionale, in due documenti antagonisti.

Da una parte si chiedeva la totale esclusione del capitale privato dall’università italiana, denunciando come una volontà autoritaria e regressiva, appena mascherata, fosse operante nel “progetto Ruberti”.

Dall’altra parte si dimostrava una moderata propensione alla collaborazione tra i due interlocutori in questione (Università e privati) nella piena garanzia di un controllo da esercitarsi dalle Università stesse, con la cospicua partecipazione degli studenti in sede decisionale.

I due documenti, in verità per niente immuni da schematismi spesso improduttivi, sono risultati in ultima analisi entrambi insoddisfacenti. Se per il primo infatti è riscontrabile una ragion d’essere non marginale in una demonizzazione, non sempre argomentata e a tratti ingenua, del privato, agitato come spauracchio, incontrollabile e dai poteri tentacolari; per quanto concerne il secondo documento accanto al rischio di un deperimento dell’istituzione universitaria, di un suo isolamento letale dal contesto socio-economico, che nel nostro paese è capitalistico quindi privatistico, non si sono offerte per contro sufficienti garanzie sugli strumenti in grado di assicurare un reale controllo sulle prevedibili, dannose ingerenze delle imprese in sede didattica. Non è un caso che la maggior parte delle facoltà italiane si siano astenute dal votare uno dei due documenti in assemblea nazionale, decretandone l’invalidazione (su tale astensione dal giudizio ha in verità pesato non poco la politica ostruzionistica di quegli studenti che non riconoscevano legittimità all’assemblea). In un quadro più generale di rivendicazione dei diritti alla partecipazione attiva dello studente nella gestione delle Università, intendendo quindi procedere ad una reale e progressiva democratizzazione delle stesse, le varie commissioni di lavoro hanno elaborato proposte di riforma organica della “cultura” accademica secondo le diverse sfere di competenza (Didattica, Diritto allo studio, etc.).

Parallelamente ad un percorso di indagine critica sull’attività scientifica delle singole facoltà, le commissioni di studio sulla didattica hanno tentato di individuare i nodi centrali che impedivano di colmare quelle lacune unanimamente riconosciute alle strutture accademiche. Si è così messa in discussione la titolarità della cattedra, che vincola il singolo docente alla specifica materia di insegnamento e viceversa, con dannose conseguenze soprattutto sui meccanismi di assunzione di nuovo personale quando il titolare viene a mancare. Se ne è proposta l’abolizione, prevedendo un accorpamento dei singoli docenti per gruppi omogenei di materie. Tale riforma realizzerebbe, nel lungo periodo, una maggiore razionalizzazione dell’offerta scientifica rispetto alle esigenze delle Università. Sempre nella stessa ottica si è avanzata l’ipotesi di abolire le stesse Facoltà, spostando la dimensione organizzativa a livello di dipartimento. L’intento finale è quello di intaccare la logica clientelare (baronale) spesse volte adottata nel reclutamento del nuovo personale docente, e più in generale nella stessa gestione dell’istituzione accademica. Le commissioni didattiche infine hanno individuati in altra sede nuovi organismi decisionali (Commissioni paritetiche per la didattica, l’edilizia, il diritto allo studio) che rispondessero alle rinnovate esigenze di partecipazione della componente studentesca, sia nella strutturazione dei corsi scientifici, sia nella gestione delle strutture permanenti (edifici, biblioteche etc.).

Altrettanto fruttuosa la fatica delle commissioni per il diritto allo studio concentratesi in una accurata operazione di denuncia e di smascheramento di tutte quelle deficienze croniche, che erano tanto più gravi quanto sommerse. In primis la lacuna in sede giuridica determinata dalla mancata attuazione di una legge quadro a livello nazionale in materia di diritto allo studio, sintomo inequivocabile di una cattiva volontà degli organi di governo a procedere ad una soddisfacente regolamentazione in materia. Le commissioni hanno poi riportato all’attenzione di tutti i problemi e le difficoltà, spesso insuperabili, cui vanno incontro tutte le categorie disagiate nella vita universitaria, individuando in seconda battuta quelle barriere, siano esse architettoniche che di altro genere, causa di ulteriori, gravi impedimenti per le categorie stesse.

Strutture poi come il pozzo librario sono già da diversi anni inutilizzate, perché si dicono impraticabili; ma da una attenta verifica in sede istituzionale è emerso che benché se ne conoscano perfettamente le ragioni, della caduta in disuso, si è fatto ben poco per rimetterle in funzione.

Su di un altro piano le stesse commissioni riunite a livello di ateneo si sono prodigate perché nel lungo periodo sia conferito allo studente uno status giuridico, che ne faccia una figura giuridica a tutti gli effetti (come il lavoratore). Una Carta dei diritti (e dei doveri), ha preso vita nell’ateneo fiorentino, così come in altri atenei. Frutto di un lavoro più squisitamente teorico, oltre a costituire un importante manifesto politico-educativo, essa intende dare pieno corpo a quello status di cui sopra. Un organismo ancora da definire, che prenderà il nome di “struttura permanente”, dovrà occuparsi di garantire che tali diritti non vengano violati, divenendo così un punto di riferimento irrinunciabile per tutta la classe studentesca. Sul fondo di tutte queste molteplici proposte di riforma radicale, in via di riesame in questi giorni, sta una chiara volontà di trasformare l’Università tutta. Un’idea nuova della vita universitaria ha animato le proposte sino a qui sommariamente esposte, la quale vuole nelle facoltà la costituzione di “comunità” organiche di studio, in cui una costante collaborazione tra studenti e corpo docente possa produrre un sapere nuovo, più critico, più aggiornato, e forse anche maggiormente qualificato scientificamente.

Chissà che poi su questo terreno non rifioriscano in prospettiva forme nuove di cultura engagée, emendate da quei furori iconoclastici troppo spesso dettati da ottusi schematismi di maniera, e capaci di rimettere in questione una certa coscienza pubblica, svogliata se non rassegnata all’impotenza, quale si è venuta manifestando negli ultimi anni.

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