Preti invadenti e sindaci inginocchiati | Carlo Baccetti

Dal numero 103 del dicembre/gennaio 1989/90

In un paese come il nostro, nel quale l’inosservanza delle leggi è una specie di sport nazionale, autentico tratto distintivo del (mal)costume civico, il fatto che un sindaco riunisca il Consiglio comunale per manifestare ufficialmente il suo dissenso nei confronti di un Consiglio di circolo didattico che aveva fatto rispettare una disposizione ministeriale troppo garantista, un fatto del genere, invece di suscitare indignazione o almeno stupore – almeno stupore, dato che il sindaco in questione è a capo di un monocolore comunista – trova larghi consensi.

Come alcuni dei nostri lettori sapranno, è accaduto che il Consiglio del circolo didattico di Crespina-Fauglia, in provincia di Pisa, ha negato al vescovo di S. Miniato il permesso di entrare nella scuola elementare di Crespina. Secondo quanto riportato dalle cronache, il Consiglio di circolo si è valso di una disposizione che affida agli organi collegiali la decisione sull’opportunità di far entrare nella scuola persone estranee, ed ha motivato il suo rifiuto con la necessità di tutelare anche la libertà dei bambini non cattolici eventualmente presenti nella scuola.

Rifiutare l ’ingresso in una scuola pubblica ad un vescovo che aveva avuto l’impudenza di chiederlo (e che voleva entrare nelle classi per, come lui stesso ha dichiarato, «spronare gli alunni») era esattamente ciò che si doveva fare, una decisione tanto opportuna quanto dovuta, perfettamente in linea anche con quella sciagura nazionale che è il concordato del 1984.Un concordato firmato, da parte italiana, è bene ricordarlo a sua vergogna, dal primo presidente del Consiglio socialista che abbiamo avuto e che concedeva alla chiesa cattolica ancora più spazio nella scuola pubblica (più di quanto non era arrivato a concederle quell’altro socialista pentito che aveva firmato il concordato del 1929), motivando queste maggiori concessioni proprio con la giustificazione che, però, si sarebbe messo fine ad ogni tipo di presenza surrettizia, “diffusa”, dell’ideologia cattolica nella scuola pubblica. Oltretutto, il Consiglio di circolo aveva contemporaneamente autorizzato «ogni insegnante che ne faccia richiesta ad utilizzare una delle sue lezioni settimanali di religione per portare la sua classe fuori, in qualunque luogo il vescovo si
trovi».

Che questa decisione garantista non sia piaciuta al vescovo in questione, e cosa che ovviamente non ci sorprende: il buon’uomo prima ha candidamente ammesso di non aver pensato che la sua visita avrebbe potuto urtare «la sensibilità di qualcuno, o addirittura infrangere i regolamenti». Poi, senza alcuna esitazione e con grande sprezzo del ridicolo, ha approfittato per impartire una lezione di educazione civica, sostenendo nientemeno che la motivazione del rifiuto avanzata dal
Consiglio di circolo, e cioè la necessità di tutelare i non cattolici, è assurda e «non democratica», perché «in una società pluralista la scuola deve preparare ad accettare, dialogare e convivere con chi la pensa diversamente».

Ora, che un vescovo cattolico, in Italia, si presenti come rappresentante dei “diversi”, quasi una sorta di minoranza che chiede umilmente di poter parlare, non rientra come potrebbe sembrare a prima vista, nella categoria del comico, ma in quella, più inquietante, del grottesco. Mosso da quel pulpito, suona inverecondo, sinistramente andreottiano, il rimprovero alla scuola pubblica di «non assolvere al suo compito di insegnare la dignità nella libertà».

Né perderemo tempo a far rilevare che queste esortazioni ad accettare una scuola pluralista, dove si dialoghi e si conviva con chi la pensa diversamente, dovrebbero più opportunamente essere rivolte ai sostenitori della scuola privata confessionale, quelli che non perdono occasione per chiedere che la collettività paghi il loro “diritto” a mandare i figli ad una scuola separata, “tutelati” dall’influenza dei “cattivi maestri”.

Ci possiamo invece, o meglio, ci vogliamo, stupire della reazione degli amministratori comunali di Crespina e di una parte almeno, stando sempre alle cronache dei giornali, dei genitori dei
bambini, i quali hanno protestato perché il vescovo «è stato lasciato fuori dalla nostra scuola». Gli amministratori del paese, che sono, come abbiamo detto, tutti comunisti, non hanno esitato a scusarsi con il vescovo per quella decisione del Consiglio di circolo. Il sindaco, «non ancora
quarantenne», ancorché dire, se proprio voleva entrare nella questione, l’unica cosa che un sindaco comunista avrebbe potuto dire al proposito, e ciò che si trattava di una decisione inappuntabile ed encomiabile sotto tutti gli aspetti, si è invece sentito in dovere di andare a ricevere il vescovo «al suo ingresso nel territorio comunale» per esprimergli «il rammarico di tutti noi per questa situazione così sgradevole». Non solo, con una decisione che a noi pare di inaudita gravità ha anche convocato un Consiglio comunale aperto, trasformandolo in un ricevimento in onore del vescovo, per deplorare «l’incidente della scuola».

Ora, quello che ci interessa, e quello che ci deprime maggiormente, in questa piccola, periferica ma non marginale vicenda, è proprio il comportamento del sindaco, come dei genitori comunisti (che non saranno pochi, se il PCI a Crespina continua a prendere quasi il 50% dei voti) che si sono dissociati dalla decisione del Consiglio di circolo.

Perché non possiamo fare a meno di pensare che tra questi comunisti, così poco sensibili all’affermazione del principio della laicità, ma soprattutto della dignità della scuola, cioè delle istituzioni, e in definitiva così poco sensibili al rispetto delle regole del gioco democratico, ce ne sono probabilmente molti che, dentro il partito, stanno protestando vivacemente contro la “rifondazione”, contro lo “strappo” che il segretario nazionale ha imposto (o tentato di imporre). Noi abbiamo un sincero rispetto per quei comunisti che si stanno ribellando alla proposta di
cambiare nome al PCI, che temono la perdita di “identità” e la “svendita” del “patrimonio ideale” e si rifiutano di diventare “uguali a Craxi”. Ma se pensiamo che tra questi difensori della “diversità comunista” potrebbero sicuramente esserci anche i comunisti di Crespina, sindaco in testa, allora facciamo molta difficoltà a capire di che cosa, in realtà, essi stiano  parlando, non riusciamo a vedere la diversità né quale contributo di “progresso” possa venire da prese di posizione così ottuse ed insensate, così subalterne all’ideologia dominante.

Non possiamo non chiederci, con una certa apprensione, di cosa sia fatto, di quali valori politici, di quali idee di cambiamento, di quale cultura insomma si nutra in realtà il popolo comunista, in
questa Toscana così anticamente e profondamente “rossa”.

E ci viene il dubbio che lo “strappo” di Occhetto, al di là di quello che sarà il suo esito congressuale, sia stato una mossa, al tempo stesso, indispensabile e inutile.

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