Tradimento | Francesco Farina

Dal numero 122 dell'estate 2016

Pochi atti sono stati, in modo così unanime, considerati infamanti quanto l’atto del tradimento. Il venir meno all’ impegno morale o giuridico di fedeltà e di lealtà nei confronti di un amico, di un compagno di lotta, del coniuge, il tradire la patria, i propri ideali, la propria tradizione sono considerati, da sempre, fatti che rendono i colpevoli passibili delle pene  più severe e talvolta crudeli. Le storie dei popoli sono intessute di vicende di tradimenti e delle ritorsioni, delle rappresaglie che ai tradimenti seguirono in nome della giustizia o della vendetta. Le notizie di quegli eventi ci giungono attraverso narrazioni che, riportando le ignominiose ragioni per cui il tradimento fu perpetrato: egoismo, avidità, libidine, depravazione, sete di potere, fanatismo, mirano generalmente a sostenere i valori che fanno apparire giustificabili le pene inflitte, le vendette fatte.

Il più delle volte sono i valori della religione, della patria, della famiglia, della fedeltà coniugale, dell’amicizia, della fedeltà agli ideali professati. Nella narrazione di queste storie, con cui sono stati educati quelli della mia generazione, una generazione che ha conosciuto cogli ultimi anni del fascismo, la fedeltà è presentata come la virtù di chi, in nome della coerenza, della fedeltà al gruppo, al partito, alla patria, all’idea professata, o alla persona, al capo, non ha mai voluto rompere il patto di fedeltà sancito, talvolta anche a costo del sacrificio della vita.

La fedeltà, contrapposta in modo esplicito o implicito, spesso con qualche ipocrisia, alla condotta colpevole del traditore, è considerata una virtù di per sé. Si può rimanere anche ammirati dall’abnegazione e dallo spirito di sacrificio con cui a volte si è tenuto saldo un patto di fedeltà, ma quando questo patto si è mantenuto di fronte alla più chiara evidenza del fallimento delle idee professate, di fronte alla criminosità dei comportamenti tenuti dall’organizzazione a cui si apparteneva, alla distruttività e alla disumanità della azioni compiute, quando nei rapporti personali, fedeltà ha significato l’accettazione di una violenza subita anche a lungo nel tempo, quando ha richiesto l’acquiescenza di fronte all’ingiustizia perpetrata nei confronti dei più deboli, è difficile pensare che la fedeltà sia da considerarsi sempre una virtù.

Se si dissolve il paludamento retorico con cui la si ammanta, si scopre che a volte la fedeltà ha molto a che fare con l’obbedienza cieca richiesta a molti per la difesa di concreti interessi di pochi e forse nasconde l’incapacità di riconoscere il fallimento del proprio mondo, delle proprie idee, è un gesto di orgoglio e di ottusa superbia. È evidente che sulla fiducia nelle istituzioni, sulla lealtà nei rapporti personali si basa l’edificio della convivenza umana, ma c’è da chiedersi se talvolta non sia necessario infrangere, cambiare anche con un atto di forza situazioni in cui la fedeltà degenera nella connivenza con l’ingiustizia, nella complicità con il delitto.

Ci sono situazioni in cui il tradimento appare come un atto di liberazione che può dare inizio ad una nuova vita, un atto con cui ci si affranca da pregiudizi che si sono rivelati infondati ed erronei, ci si dissocia da sodalizi criminali. Può essere la decisione attraverso cui si diventa consapevoli della propria dignità di persone, di cittadini, conseguente alla scoperta di nuovi ideali, di più vasti orizzonti di pensiero, di nuovi modi di intendere le relazioni umane. È successo talvolta nella storia che comparisse qualcuno che prima di altri intuisse lo schiudersi di nuove possibilità di soluzione per problemi politici e sociali antichi, rimasti per lungo tempo insoluti; qualcuno che capisse che per realizzarle fosse necessario cambiare idee, appartenenze, sconvolgere consolidati assetti di potere, riconoscere che l’intera costruzione ideologica, che aveva sorretto gli ideali del passato, era diventata inadeguata per interpretare la realtà mutata con il mutare dei tempi. E per questo fosse considerato un traditore.

Scrive Amos Oz nel suo ultimo romanzo Giuda «Chi è pronto al cambiamento, chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento, e hanno paura di morire di cambiamento e non lo capiscono e hanno disgusto di ogni cambiamento». Furono considerati traditori quei, pochi, sionisti che avevano intuito che la proclamazione dello Stato di Israele avrebbe obbedito alla logica della sopraffazione e del nazionalismo e che avrebbero voluto uno Stato binazionale in cui arabi ed ebrei avessero potuto convivere gli uni accanto agli altri. La loro visione utopica fu considerata dai più un tradimento del nascente Stato di Israele; in realtà vi era in essa la premonizione profetica delle tragedie future che si sarebbero consumate in una guerra eterna tra due popoli.

Citando questi esempi, il protagonista del romanzo dice che l’appellativo di traditore talvolta dovrebbe essere considerato «una specie di menzione d’onore».

Questa riflessione sul tradimento è ancora attuale? Probabilmente sì.

In questo momento di fronte alle trasformazioni sociali, culturali, tecnologiche in atto, si sta diffondendo in Europa e altrove un allarme che spinge a creare separazioni tra le culture, che diventa un’indicazione contro le altre culture. Si fanno più insistenti gli appelli alla salvaguardia delle identità nazionali, religiose, alla fedeltà alle proprie radici e la chiusura entro confini reali o simbolici è vista come unica strategia di salvaguardia possibile. Si crea così un clima in cui possono essere considerate tradimenti sia l’apertura al confronto tra i propri e gli altrui valori, sia la disponibilità a praticare o a lasciar praticare liberamente propri stili di vita.

Nel mondo occidentale è la nuova presenza di etnie portatrici di altre culture e di diverse tradizioni, ad essere percepita come minaccia alla nostra identità, alle nostre radici cristiane, ai valori fondanti che finora hanno dato senso alla nostra vita, alla nostra cultura, quali i valori della libertà, dei diritti della persona. Altrove, in particolare nel mondo mussulmano, è il prevalere a livello planetario della mentalità e degli stili di vita della modernità occidentale che viene visto come una minaccia ai valori religiosi e culturali della shari’a, la «strada rivelata», legge sacra, imposta da Dio.

Sia nell’uno che nell’altro campo potrà venir considerato traditore chi pensa che per una pacifica convivenza nel mondo globalizzato sia inadeguata una concezione di multi-cultura, costituita dalla giustapposizione di culture intese come entità statiche immutabili, autonome e complete in se stesse, estranee le une alle altre, e pensa che sia più appropriata una concezione di inter-cultura, concepita «come processo che continuamente evolve e continuamente trasforma le relazioni tra culture che si mescolano e si intrecciano tra di loro» (Marcello Ghilardi, The line of the arch, Mimesis international, 2015).

Forse chi ora viene considerato traditore, è colui che intravede la necessità di un nuovo «pensiero che tenga conto delle interconnessioni e delle influenze reciproche tra culture differenti, e che cerchi di trasformare la nozione di cultura stessa» (op.cit.) per poter avere il solo possibile sogno di un altro modo di abitare la Terra: abitarla in modo non identitario, abitarla come ospiti, in una visione della società che parta dall’alterità e non dall’identità, dalla conservazione delle differenze e non dell’unicità, che ci richiami non tanto ad un ipotetico comune passato, quanto ad un destino condiviso che nel futuro di una realtà sempre più globalizzata inevitabilmente ci attende.

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