Una nobile follia | Maria Beatrice Di Castri

Dal numero 121 della primavera 2016

Se la psichiatria moderna sottoponesse non pochi degli eroi omerici a un’indagine clinica, si sprecherebbero le diagnosi di schizofrenia, scissione della personalità, disturbi allucinatori e paranoico-ossessivi: Odisseo dialoga spesso con il suo thymós (cuore), vede e sente apparirgli accanto Atena, che lo consiglia e lo indirizza; la stessa dea aveva trattenuto Achille da un raptus omicida contro Agamennone e invece farà poi impazzire Aiace, che, pensando di infierire contro gli odiati Atridi, commetterà una strage di armenti. Ad Eracle era andata anche peggio, perché, indotto da Lyssa (dea del furore), aveva massacrato per errore moglie e figli in un attacco di delirio rabbioso da cui poi era rinsavito. Del resto, in un contesto ben più tardo, pure quel Socrate che Nietzsche accusava di aver rimarcato nella sensibilità greca, così naturalistica e immaginifica nel mondo arcaico, l’apollineo principium individuationis, dialogava, per sua ammissione, con il suo daímon.

Linguaggio metaforico e mitico? Sicuramente al bruto racconto così come ci è tramandato va applicata una tara in tale senso, ma, come ormai molti studiosi hanno evidenziato – si possono citare alcune pietre miliari, a cavallo tra filologia e antropologia, come L’uomo nel mondo omerico di Bruno Snell (1947), o I greci e l’irrazionale di Eric Dodds (1951) – una spiegazione puramente letteraria si rivela insufficiente a interpretare la complessa ricchezza delle testimonianze e le loro singolari coincidenze con fenomeni diffusi e ben osservabili in altre culture, soprattutto nelle società cosiddette primitive.

Nel mondo omerico, in una fase in cui l’autocoscienza dell’individuo non conosce i meccanismi di affermazione del soggetto moderno e in cui manca l’idea di anima come fenomeno unitario (Julian Jaynes parlava piuttosto di una mente bicamerale), surrogata da una varietà di pulsioni interrelate, talvolta contraddittorie tra loro, e da una pluralità di organi parziali del pensare e del sentire, la follia, lungi dal potersi identificar come una patologia dell’anima (che non c’è ancora), è sentita piuttosto come un provvisorio sbalzo di energia psichica, è dunque un dato costitutivo dell’esistenza, insieme permanente e però intermittente nel suo dispiegarsi, non una condizione specifica di individui devianti. I conflitti interiori vengono così proiettati all’esterno, su un’entità soprannaturale, che può afferire al pantheon olimpico più noto (Zeus, Atena, Apollo), o anche identificarsi in toto con il valore/disvalore che impersona: Ate, la Colpa, Aidos, la Vergogna, Nemesi, la Punizione, e così via: e non si tratta di mere astrazioni, ma di realtà percepite come oggettive, in un mentalità in cui, precisa Giulio Guidorizzi nel suo illuminante saggio Ai confini dell’anima. I Greci e la follia (edito per i tipi di Raffaello Cortina nel 2010), «ogni concetto astratto ha un suo “doppio” di natura demonica che opera per conto suo sulla scena della vita, e non dentro la mente, ma indipendentemente, come una figura a tre dimensioni».

Così stati alterati della personalità anche in epoca più tarda prendono la loro eziologia dal dio che si è impossessato dell’individuo: oltre a poeti e profeti, invasati da Apollo che induce manifestazioni violente di trance medianica (le descrizioni della sintomatologia della Pizia, la sacerdotessa dell’oracolo di Delfi, appaiono piuttosto inquietanti), vi sono ad esempio i ninfolepti, posseduti dalle Ninfe, che inducono piuttosto uno stato di ebete torpore.

Specifica alterazione dell’energia psichica è anche la follia guerriera, ménos, evocata spesso in Omero come invasamento da parte di Ares, in un’epoca in cui conta la capacità del singolo di distinguersi nel seminare strage; tale esaltato scatenamento di violenza, tipico del mondo eroico, andrà invece contenuto quando, con la nascita della polis come organo più inclusivo, l’inquadramento dei fanti-cittadini nella falange oplitica imporrà piuttosto un modello disciplinato e cooperativo di combattimento.

Così è folle l’indovino, mántis, dotato di poteri sciamanici, come Teoclimeno nell’Odissea, che non solo prevede, ma vede e sente con allucinata intensità l’incombente rovina dei Proci, a loro volta catturati da una forma di insania collettiva, che li spinge a una degradante perdita di autocontrollo, con manifestazioni di riso incontrollato, ecolalia e omofagia.

Per i Greci, non solo nel mondo omerico ma anche in quello classico ed ellenistico, non esiste insomma il folle, o il pazzo, in quanto soggetto specifico da stigmatizzare e isolare – sappiamo che nell’Atene classica gli alienati mentali (usiamo pure questa definizione approssimativa per semplificare continuavano a vivere nella comunità, pur sospesi da oneri a cui non avrebbero potuto attendere -, quanto la possibilità di esperienze di follia che possono colpire chiunque, benché soprattutto per specifiche tipologie vi siano dei più facili predestinati.

E questo vale sia per i casi di follia, transitoria o duratura, che nell’Atena classica la scuola ippocratea cerca di diagnosticare in termini clinici e patologici come una disfunzionalità dell’organismo, sia per quei comportamenti recepiti come anomali piuttosto sul piano morale e religioso. Duplice in tal senso la prospettiva di Platone (l’unico del resto a ipotizzare per i folli forme di restrizione reclusione): da un lato, ad esempio nella Repubblica, il filosofo intende la pazzia come errore etico e incapacità di dominare gli istinti, quindi eccesso che travolge la razionalità – risultano perciò pazzi, ad esempio, gli innamorati, gli ubriachi, ma anche i tiranni assetati di potere, tutte categorie incapaci di avere un rapporto equilibrato con la realtà e vittime del proprio delirio solipsistico -, dall’altro delinea la nobile follia (per questo e altri casi citati prendiamo a prestito il titolo di uno dei romanzi di Ugo Tarchetti, scrittore scapigliato ben aduso ai lati oscuri della coscienza umana) di chi è posseduto da un dio; e dedica quindi specifiche pagine nel Fedro e nello Ione proprio alla théia manía (divina follia) dei poeti, capaci, grazie all’ispirazione divina, di sconfinare in competenze a loro sconosciute eppure evocate nel canto grazie all’eccezionale potere mitopoietico della parola, ed altresì di irradiare effetti ipnotici e inebrianti su coloro che li ascoltano. Se sono attestati nelle fonti fenomeni di estasi mistica di singoli individui, con manifestazioni di scissione dell’anima e di catalessi, ciò che più colpisce l’immaginario sono piuttosto le espressioni collettive di trance orgiastica, che comportano oltretutto lo sprigionamento di inedite energie corporee: ai rituali di Dionisio, oltre alla danza frenetica, le testimonianze, in primis la sconvolgente tragedia di Euripide Le Baccanti, ascrivono ad esempio la forza fisica eccezionale degli adepti, l’insensibilità al fuoco, la familiarità con bestie selvatiche, nonché, al culmine, del rito, lo sbranamento (sparagmós) a mani nude di un animale di grossa taglia, e il cibarsi delle sue carni. Si tratta di culti pertinenti soprattutto a categorie sociali relegate nella marginalità dalla religione ufficiale, a partire dalle donne, prime destinatarie della fascinazione dionisiaca. Certo il lettore moderno non può non chiedersi se siamo di fronte a scene di isteria collettiva, a invenzione fantapoietiche, e altresì quale fosse il confine tra gli stati mentali a cui oggi verrebbe attribuita una definizione psichiatrica, e la religione e la magia, ché sfera del sacro e ossessione maniacale sembrano integrarsi inscindibilmente, a dispetto di tutta quella antiquata prosopopea che ha additato il mondo greco come l’espressione per antonomasia della razionalità occidentale.

Del resto lo stesso trasferimento del disturbo mentale alla sfera del sacro ne permette la cura e l’esorcizzazione: essa diventa quindi disturbo etnico riconoscibile, canalizzato ed espiato a salvaguardia della comunità intera. E magari se questo rispetto per le manifestazioni di follia fosse sempre stato mantenuto l’Occidente avrebbe risparmiato a tanti folli, tali o presunti, sofferenze e segregazione spaventose.

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