NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA? di Collettivo Senza Nome

 (Riceviamo e volentieri pubblichiamo)

AUX CAMARADES

Care compagne, cari compagni,

questo documento è il frutto acerbo di un lavoro collettivo, ed in ragione del prodotto finale ci siamo costituiti appunto in Collettivo con la maiuscola.

Ragionando sul nome da darsi non siamo riusciti a venirne a capo: abbiamo assunto la provvisorietà di questa situazione per rovesciarla in un soggetto che tenti di dare nome alla cosa denunciandone l’assenza.

Collettivo Senza Nome, per l’appunto.

Questo documento è precario e conclusivo, chiude una prima fase caratterizzata dall’emergenza.

Va aperto tutto il resto, che sarà importante e decisivo.

Il nostro intento – ambizioso – è quello di far crescere questo collettivo, organizzare le sue ragioni in ogni angolo della società, farle vivere con una prassi di nuovo rivoluzionaria, la sola all’altezza di questi tempi.

Individuiamo in questo maledetto virus una frattura da approfondire, da interrogare, ma non da ricomporre.

Composita solvantur.

Inviateci i vostri contributi, abbiamo un folle desiderio di imparare.

L’obiettivo è quello di vederci fisicamente non appena sarà possibile: gli stati generali, in estate forse.

E darci, insieme, finalmente un nome.

Per definire la Cosa.

collettivosenzanome2020@gmail.com

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C.S.N – Collettivo Senza Nome

“Spezzare l’amministrazione della coscienza è, oggi più di prima, una condizione preliminare della liberazione..il pensiero nella contraddizione deve diventare più negativo e più utopico di fronte all’ordine esistente..la libertà è pensabile solo come realizzazione di quello che oggi viene ancora chiamato utopia.”

 Herbert Marcuse, 1964.

 

“Non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire.”

 Hans Jonas, 1979.

 

NIENTE SARÀ PIÙ COME PRIMA ?

 

In premessa.

 Mentre l’attenzione dei media si divide tra i bollettini della Protezione Civile e le pressioni del mondo imprenditoriale che lancia l’allarme sulla crisi di commesse e dunque sulla necessità di riaprire le fabbriche al più presto, assordante si fa l’assenza di un pensiero critico che indaghi le cause della situazione in cui ci troviamo e provi a tratteggiare scenari alternativi per il futuro.

Fin qui ci siamo mossi come se tutto quello che stiamo vivendo fosse una parentesi, senza interrogarsi né sulle cause che hanno provocato questa crisi, né su quelle che ne hanno facilitato l’esplosione. Manca un pensiero nuovo, che sia attrezzato per ripartire in maniera diversa, perché – questa è la nostra convinzione – ripartire come prima sarebbe un errore imperdonabile.

Oggi non sembra esserci una forza capace di intuire la potenzialità di questa crisi e di articolarne le contraddizioni, eppure la posta è alta, per questo siamo chiamati a compiere uno sforzo in molteplici direzioni. Serve innanzitutto uno sforzo di creatività per inventare forme di partecipazione, per costruire e poi sperimentare visioni, percorsi unitari e trasversali su obiettivi condivisi, attorno ai quali aggregare consenso ed energie. Serve anche uno sforzo di umiltà per mettere in relazione visione di lungo periodo e bisogni materiali delle persone nel modo più concreto e comprensibile possibile. Serve provare – fin da queste settimane – a ricostruire una politica. Non sarà facile: la paura dell’untore, la richiesta di sicurezza non giocano a nostro favore. Però è necessario: se non manteniamo una capacità di lettura, di analisi e di azione collettiva in questa fase, sarà veramente difficile non essere risucchiati dal vortice di un sistema egemonizzato dalle dinamiche del Capitale che proverà anche questa volta a socializzare le perdite e a riadattare la propria struttura in modo da sopravvivere, immutato, ancora.

È allora salutare compiere uno sforzo di analisi e provare a rintracciare le possibili cause e responsabilità della situazione che stiamo attraversando, e su quelle tentare di costruire scenari, la cui realizzazione sarà demandata allo sforzo generoso di ricostruire spazi collettivi di discussione, confronto, elaborazione e prassi politica.

 

Il virus.

 Ci troviamo innanzi ad un virus la cui contagiosità è risultata enorme. Milioni di persone agli “arresti domiciliari” (chi ha la fortuna di avere una casa) migliaia negli ospedali, tanti ancora a lottare fra la vita e la morte nei reparti di terapia intensiva, migliaia di persone purtroppo già decedute (a inizio maggio, nel nostro paese, più di ventottomila). Il virus ha falcidiato soprattutto anziani e persone con patologie pregresse – solitamente “trattabili” in modo efficace.

Ci accostiamo al tema con grande pudore e con immenso rispetto nei confronti delle tante famiglie che hanno visto i loro cari soccombere, spesso in totale solitudine. Un portato di dolore immane che nel nostro paese, l’Italia, si è concentrato soprattutto in Lombardia, con numeri spaventosi, ed in altre tre regioni: il Piemonte, l’Emilia Romagna ed il Veneto. Queste quattro regioni, a maggio, vedono più del 70% dei positivi su scala nazionale al Covid 19, con quasi l’80% dei deceduti complessivi.

Ma proprio per il rispetto che dobbiamo alle vittime riteniamo doveroso interrogarci a fondo sulla natura evenemenziale di questa patologia per segnalare i possibili punti di rottura rispetto ad un ordine costituito che si è progressivamente allontanato dall’umano. Un mondo in cui si ridefinisca – con estrema attenzione – cosa sia essenziale e quello che risulti, al contrario, non solo e non tanto superfluo ma dannoso, in primo luogo per la specie umana.

Da questa frattura di sistema, scoppiata in seguito al virus, analoga per molti versi a quella del 1929, si potrà “uscire” in modi diversi. Dipenderà molto da quali elementi prevarranno tra quelli che già si stanno manifestando in modo dicotomico nella crisi in atto: se prevarrà il recupero della dimensione collettiva e della solidarietà, visibile ovunque, o se vinceranno gli elementi al contrario regressivi, legati ad un nazionalismo aggressivo e reattivo ad una minaccia “venuta da fuori” in cui l’esterno (l’Unione Europea in primis) sarà accusato di non aver dato l’aiuto necessario ai popoli in difficoltà. È stato visibile lo scontro tra i paesi dell’area mediterranea con quelli del Nord Europa riguardo ai cosiddetti “eurobond”, strumento a nostro avviso essenziale sia economicamente che simbolicamente, tassello ineludibile per la tenuta di un’Unione Europea rinnovata nei suoi elementi solidali.

Sgombriamo il campo da ogni possibile equivoco: il nostro nemico non è la Germania (o la Francia, o qualsiasi altro Stato). Il nostro principale nemico, in questo momento, sono le ragioni di sistema che hanno concesso a questo virus di dilagare quasi indisturbato per mesi, seminando morte ovunque. Sentiamo anzi forte l’esigenza di rilanciare un vigoroso internazionalismo, e siamo al fianco dei tanti cittadini europei ed extraeuropei che battagliano, come noi, per restare in vita.

L’avversario resta tuttavia sempre lo stesso, è un “mostro” che  conosciamo ormai da qualche secolo: il capitalismo, nella sua più recente mutazione neoliberista, ultima manifestazione della mirabile capacità di adattamento e di trasformazione, prima causa della devastazione attuale. Il massacro progressivo dei sistemi sanitari pubblici, per fare un esempio di immediata leggibilità (in Italia in venti anni si sono persi circa trentamila posti letto negli ospedali, cui non ha fatto fronte il benché minimo potenziamento dei servizi territoriali) deve essere imputato al nuovo ordine neoliberista: il mantra dei “parametri economici” e dell’austerità regressiva ha colorato di morte questo 2020 impoverendo progressivamente la capacità di ogni singolo Stato di rispondere ad una pandemia come quella che stiamo affrontando.

L’Italia ha pagato un tributo pesantissimo: se proprio grazie allo stato sociale – conquista di decenni di lotte e paradossalmente facilitato da uno scenario internazionale caratterizzato dalla “guerra fredda” – l’età media si è elevata progressivamente, è del pari vero che la caratteristica più saliente della popolazione anziana del nostro paese, a causa della scarsa capacità di risposta ai bisogni socio-sanitari emergenti dovuti ai continui tagli che il sistema pubblico nelle sue varie articolazioni ha dovuto subire, sono quelle di una elevata fragilità: si è anziani e contemporaneamente malati di più patologie. In questo scenario il Covid19 ha potuto imperversare, facilitato anche da scelte regionali su cui la magistratura ha già iniziato ad indagare (ci riferiamo alla delibera regionale lombarda che ha “depositato” nelle Rsa pazienti già infetti, o ai casi dell’ospedale di Alzano Lombardo e del Pio Albergo Trivulzio).

Si dovrà agire politicamente, economicamente e culturalmente per ottenere un drastico cambiamento di rotta. Niente ci sarà concesso, tutto quello che sapremo conquistare sarà il frutto delle battaglie nelle condizioni che ci saranno date e che contribuiremo, con la nostra prassi, a modificare: appena sarà possibile uscire, infine, e non solo metaforicamente, dalle nostre stanze.

Non siamo così innocenti politicamente da pensare che la giustezza delle nostre ragioni possa piegare di per sé stessa gli interessi materiali dei nostri avversari. Il primo imperativo è quello oggi di sopravvivere per poi organizzarci collettivamente per (di nuovo, ed ancora) cambiare il mondo rispondendo ai bisogni umani emergenti.

 

Le cause.

Questa emergenza era prevedibile. Dall’inizio del millennio, con l’epidemia di Sars prima e con la febbre suina in anni più recenti, le organizzazioni mondiali che si occupano di salute hanno più volte denunciato il rischio di una pandemia. Di fronte  a questo rischio, nessuno Stato al mondo ha pensato di raccogliere l’allarme. Le ragioni di questo rifiuto sono facilmente rintracciabili nel prevalere degli interessi che governano da oltre un ventennio non solo l’economia ma anche la politica a livello mondiale: prendere misure di prevenzione contro il rischio di insorgenza di  una pandemia avrebbe significato intervenire nei meccanismi di produzione e di accumulazione di valore su cui si basa il sistema neoliberista dominante. Ecco la principale ragione per cui non lo si è fatto.

Il Covid-19 appartiene alla famiglia delle zoonosi, malattie che si trasmettono dall’animale all’uomo. Occorre partire da qui per capire non solo l’origine del virus che sta mettendo in ginocchio il mondo intero, ma anche la causa del suo diffondersi. E la causa è intimamente legata ad un modello di sviluppo asservito alle logiche neoliberiste, che hanno fatto dell’ambiente e delle risorse naturali terreno di depredazione selvaggia. Uno degli ultimi report del Millennium Ecosystem Assessment ha dedicato una sezione al cambiamento degli ecosistemi in relazione alle malattie infettive: descrive come le azioni antropiche abbiano facilitato i processi di “salto di specie”, correlando le principali malattie degli ultimi anni alla variabilità del cambiamento climatico, agli allevamenti intensivi, alla deforestazione e alla distruzione di ecosistemi, funzionali all’agricoltura industrializzata.

L’emergenza pandemica in cui ci troviamo è dunque da leggersi in maniera dialettica rispetto a decenni di trasformazioni antropiche volte allo sfruttamento e all’estrazione di valore dal territorio ai danni del territorio stesso (e delle varie specie, compresa quella umana, che lo abitano). Prendiamo ad esempio l’agroindustria: si basa sempre più sul modello della monocoltura industriale, e per questo ricorre ad una semplificazione genetica forzata rispetto alla naturale complessità dei sistemi ecologici (un prodotto standardizzato penetra più facilmente il mercato). La conseguenza? Un sistema rimpinzato di antibiotici al punto da esserne assuefatto, e per questo più debole e penetrabile dalle patologie.

Nel 2004 (non ieri), l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Organizzazione mondiale della salute animale (Oie) e l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) segnalarono queste degenerazioni come principali cause di nuove malattie sconosciute trasmesse dagli animali agli esseri umani. In Cina, negli Stati Uniti, in Australia (per fare gli esempi più lampanti) ci sono mega-fattorie con centinaia di migliaia di capi di bestiame, dove gli animali allevati vengono a contatto con quelli selvatici privati del loro habitat naturale a causa della deforestazione selvaggia operata per far posto a questi grandi allevamenti. In uno studio promosso dalle tre organizzazioni sopra citate si sottolineava come l’imposizione del modello industriale dell’allevamento intensivo stesse provocando un incremento globale di infezioni resistenti agli antibiotici,  promuovendo la crescita delle malattie. Da quando l’allevamento industriale si è imposto nel mondo la medicina rileva morbi sconosciuti ad un ritmo insolito: secondo uno studio negli ultimi trent’anni sono stati identificati più di trenta “agenti” in grado di causare una malattia, la maggior parte dei quali sono virus trasmessi da animale a uomo come il Covid-19. La pandemia che ci devasta rivela così il perverso intreccio che si è creato tra epidemiologia ed economia politica; il suo punto di partenza è saldamente ancorato all’industrializzazione capitalista, a partire proprio dal ciclo alimentare. Diventa dunque prioritario non solo prenderne coscienza ma affiancare e sostenere i movimenti di denuncia avviando la costruzione di un modello di produzione e di consumo alternativo, che non si affidi solamente al virtuosismo di azioni e comportamenti individuali o micro-comunitari (reti di piccoli produttori, gruppi di acquisto, ecc) ma tracci le linee di una politica di supporto a nuovi modelli produttivi.

 

 

Il cuore del problema.

 Fin qui le principali cause. Ma è altrettanto importante rintracciare gli elementi e le decisioni che hanno favorito la crisi sanitaria (e – indirettamente – quella sociale) che stiamo vivendo in tutto il mondo, Europa compresa. Mentre il modello di produzione e consumo di beni primari veniva piegato agli interessi della grande industria, il neoliberismo ormai divenuto “religione” globale (per assenza di competitor) proseguiva la sua opera per mano di governi di qualsiasi colore, assestando colpi mortali al welfare state che soprattutto in Europa è stato per decenni motore di sviluppo e progresso. Quarant’anni di neoliberismo hanno lasciato il settore pubblico completamente esposto e mal preparato ad affrontare una crisi sanitaria di questo tipo, anche se gli allarmi precedenti su Sars ed Ebola avevano fornito indicazioni abbondanti e lezioni convincenti su ciò che deve essere fatto in questi casi.

Se assumiamo il modo di produzione capitalistico come agente fondamentale di trasformazione del mondo, ci accorgiamo che patologie come il Covid-19 non sono contraddizioni esterne bensì endogene al sistema. Per questo non possiamo limitarci a dire “quando tutto tornerà alla normalità”, perché la causa di quello che stiamo vivendo è ciò che noi chiamiamo “normalità” e nella quale abbiamo vissuto fino ad ora, assumendone anche inconsapevolmente il credo, comportandoci da buoni consumatori, ed estendendo il dominio del mercato ad ogni sfera della vita.

Il tema è proprio quello: la crisi del capitalismo e di tutto il suo sistema di valori, a partire dall’esaltazione dell’individuo. Oggi la dimensione privata è clamorosamente all’angolo; ciò stride con la celebrazione dell’individuo svincolato, dell’imprenditore di sé stesso, mantra di una vulgata ideologica che ha contribuito a dividere e indebolire lo spirito pubblico. Per questo, al di là dell’emergenza contingente, occorre fin da subito compiere uno sforzo non più rinviabile di critica e di costruzione di un’alternativa politica, economica e sociale. E non basta accontentarsi delle misure che gli Stati stanno adottando in queste settimane, perché esse non sono la garanzia che una volta tornati alla normalità segnino davvero un’inversione di tendenza. Nella situazione attuale gli Stati sono “obbligati” dai fatti a far prevalere degli interessi in qualche modo più generali rispetto a quelli che solitamente risultano favoriti dalle politiche fin qui messe in atto a livello statale, continentale e globale. L’unica cosa che queste misure dimostrano è che a dispetto del  dogma dell’austerità, le risorse ci sono e possono essere spese. Lo dimostra lo stesso establishment che le negava, smantellando vincoli e patti di stabilità che venivano perorati fino a pochi giorni fa come leggi di natura. Occorre allora stabilire come allocare le risorse, e soprattutto chi dovrà beneficiarne. Occorre invertire la rotta. Questa situazione senza precedenti  richiede misure senza precedenti. Esiste solo un modo per impedire che il triplo disastro di una pandemia fulminante, di un’economia mondiale al collasso e di un ordine sociale sfilacciato sfugga completamente al controllo. Per i governi nazionali di tutto il mondo ciò significa unirsi in uno sforzo coordinato per affrontare in modo deciso l’emergenza sanitaria pubblica globale, sperimentare nuove forme di controllo e pianificazione nei settori strategici dell’economia e garantire che i beni essenziali continuino a essere prodotti in base alle capacità e distribuiti sulla base del bisogno. Dovrà esserci una moratoria immediata su tutti gli affitti, i debiti e i mutui. Dove non lo hanno già fatto, i governi dovranno intervenire per garantire tutti gli stipendi e assicurare un reddito a coloro che non hanno forme di lavoro regolari o costanti. Un’espansione fiscale così ambiziosa deve essere a nostro avviso finanziata attraverso un’importante imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze.

 

Capri espiatori.

 Sollecitata da un feroce sistema dei media mainstream la cui ignoranza – nel senso pieno del termine – ha svelato ancora una volta il suo volto più retrivo, è emersa, virulenta soprattutto nella parte iniziale della pandemia, la tendenza alla ricerca del colpevole e dell’untore. Ci si è scagliati – imprenditori politici del razzismo ma non solo – su quelli più vicini e più deboli, ma in un certo senso “esterni”: gli immigrati, nella fattispecie cinesi. Non sono mancati episodi di violenza nei confronti di questi innocenti, nelle fasi iniziali dell’epidemia, prima che assumesse i tratti della pandemia (anche della Ragione). La comunità immigrata cinese, poi, ed è un fenomeno che andrebbe analizzato in ogni suo aspetto, è stata al contrario quella che più ha mostrato, nei luoghi abitati e rivitalizzati da questa presenza, un’autodisciplina rigorosa riguardo alle misure di “contenimento” e “distanziamento sociale”, ancor prima della fase governativa di decretazione emergenziale.

Mentre i Sindaci lombardi invitavano ad uscire per gli aperitivi in una improvvida ri-edizione della “Milano da bere”, gli avvertiti cittadini cinesi, intuito il pericolo per la loro vita, si disciplinavano all’interno delle loro abitazioni, incuranti per primi – preme sottolinearlo – delle ragioni della produzione e del profitto.

L’odio si è così – a nostro avviso – rovesciato in una forma di ammirazione pericolosa quanto e più dell’odio stesso: più che il singolo cittadino cinese si ammira infatti il regime dittatoriale di cui sarebbe, chissà perché, espressione, che avrebbe mostrato in patria capacità di contenimento del virus maggiori rispetto a quelle mostrate dalle “fragili” democrazie occidentali. Per quanto ci riguarda tendiamo a dubitare di ogni cifra fornita da regimi autoritari.

A questa prima ondata di odio nei confronti del nemico venuto da fuori – che si è infranta sul muro comportamentale eretto con sobrietà dalla comunità cinese – è seguita quella nei confronti del “nemico interno”, l’untore “indisciplinato”: l’ultras dell’Atalanta che ha seguito la sua squadra del cuore in occasione della storica partita di Champions League a San Siro contro il Valencia, il “terrone” che ha affollato i traghetti verso la Sicilia, o che ha assaltato i treni delle ferrovie dello Stato per raggiungere la sua madrepatria, il milanese in fila in autostrada verso la seconda casa nei luoghi di villeggiatura, le mamme che avrebbero contributo alla diffusione del virus portando i loro bambini ai giardini pubblici, i cittadini in fila davanti ai supermercati colpevoli di fare la spesa troppe volte e poi, vera epitome di ogni nefandezza, una figura archetipica, quella del “runner”, il podista che – noncurante di ogni divieto (anche se il divieto fin lì non esisteva) e di ogni morale, attentava alla vita altrui in nome del proprio benessere.

Si è così assistito a scene degne di ogni distopia: cittadini impauriti, rinserrati nelle proprie case, barricati nel loro terrore, che insultavano dai balconi dei loro condomini le mamme con passeggini ed i runner solitari che, in uno scenario quasi apocalittico di strade deserte, alimentavano una parvenza di vita correndo sui marciapiedi senza poter recare danno ad alcuna forma di vita.

 

Comprovate esigenze lavorative.

 Queste correnti di odio che imperversano costanti, immuni ad ogni mozione degli affetti o enciclica pastorale o “giornata della memoria”, in attesa di una loro direzionalità (e al conflitto orizzontale che sfocia nella barbarie andrebbe sostituto, lo diciamo a costo di apparire retrò, un rinnovato conflitto di classe), vengono così scaricate dal sistema dominante su bersagli privi non solo e non tanto di ogni colpa ma anche di ogni difesa. Si produce un enorme effetto di mascheramento tipico di ogni ideologia: l’untore viene ricercato in ogni luogo tranne che in quello ove sarebbe immediatamente visibile. E mentre il popolo artatamente ridotto a plebe veniva sollecitato a sparare insulti al runner o al genitore a passeggio con il figlio, mentre i sindaci e le sindache di ogni latitudine e di ogni orientamento politico – senza alcuna apprezzabile differenza – diffondevano via social accorati appelli a restare a casa (dimenticandosi freudianamente chi la casa non ce l’ha o chi magari vive proprio in casa situazioni di maltrattamento), la produzione ed il “lavoro” continuavano senza sosta, nonostante tutto, senza limite, senza “cura” (né di sé né degli altri). Fabbriche, uffici, supermercati, centri commerciali, lavoratrici e lavoratori – impegnati nella produzione e nella distribuzione di merci e servizi, che da cittadini portatori di morte se girovaganti per le strade – diventano improvvisamente immuni una volta giunti nel loro luogo di lavoro. Un immenso carnaio di corpi messi al lavoro, in forma, disposti ad accogliere il virus, confidando nella prima difesa, quella che – mascherine o non mascherine, distanziamento o meno – resta purtroppo più efficace: il proprio sistema di anticorpi, le proprie difese immunitarie, la propria genetica. Quell’alea della nuda vita destinata a rivestire un’importanza decisiva per la salute del singolo ma non rilevante per la sua “salvezza”, che segue altre coordinate su cui non osiamo avventurarci.

L’attuale crisi pandemica, e la risposta delle classi dirigenti, offrono un’immagine chiara dell’idea che sta al cuore della teoria della riproduzione sociale: le attività che riproducono la vita stessa vengono messe in secondo piano rispetto alle attività che producono profitto. Questa è la contraddizione principale del capitalismo: degrada e sottovaluta esattamente chi produce ricchezza sociale reale. Dove il Sindaco del paese, insieme al maresciallo dei carabinieri, vedevano le pagliuzze delle mamme ai giardini e sparuti runner sui marciapiedi, noi ci ostinavamo a denunciare la trave di milioni di operai ancora alle catene di montaggio, non solo nell’ecatombe della Val Seriana, in cui nel nome del profitto si sono mandati a morte decine di lavoratori, ma in ogni paese della nostra penisola, nei distretti della Terza Italia così come nelle fabbriche del nord e del sud. E notavamo con rabbia il proliferare assurdo e anche offensivo di “modelli” per le autocertificazioni da esibire in caso di controllo che vedevano tra le causali, o meglio prove a discarico del proprio muoversi senza restare a casa le “comprovate esigenze lavorative”.

Chiedevamo (e continuiamo con insistenza) a chiedere: esigenze di chi? Esigenze di che cosa? Se reputiamo necessario anche azzardare il sacrificio della propria vita (mutuando le metafore guerriere che tritamente abbondano) per consentire la sopravvivenza della specie, assicurando la continuità del proprio lavoro se inclusi nelle categorie economiche “essenziali” per decreto presidenziale, reclamiamo tuttavia con forza il diritto di ridefinire, sfruttando questa pandemia – collettivamente – ciò che è davvero essenziale e ciò che al contrario “grazie” a questo virus rivela la propria superfluità.

 

L’essenziale.

Nel dover fronteggiare il coronavirus abbiamo scoperto che tutta una serie di attività di cui sono intrise e da cui sono scandite le nostre vite non sono essenziali per la Vita stessa. Ci stiamo sottoponendo a una serie di limitazioni che privano la vita della gioia della socialità ma al contempo stiamo imparando che molti degli orpelli che adornavano le nostre esistenze prima del coronavirus – le produzioni per generarli, il reddito per garantirseli, le corse, anche e soprattutto esistenziali per accaparrarseli – ci hanno imposto una scala che non è più quella appropriata alla misura umana. Sembrano riecheggiare le parole allora incomprese o inascoltate di chi, quarant’anni fa e al margine delle prime avvisaglie di crisi del sistema, proponeva una riflessione su altri modelli di consumo e di vita.

Esiste una superfetazione di merci la cui produzione è inutile e dannosa, per noi e per l’ecosistema. È nostro dovere, a fronte di questa tragedia, decretarne l’inutilità e la dannosità. Spetterà ad un rinnovato “pubblico” – restando da definire le caratteristiche dello “statale”, e non ci convincono certo i capitalismi autoritari di Stato come quello cinese o russo – decidere da ora in poi come rimettere al centro della vita (e della produzione legata alla vita) l’uomo con le sue esigenze, e non la merce con le proprie dinamiche. Ritrovare la forza di una pianificazione – collettiva e razionale – di cosa, dove e come produrre (il rispetto rigoroso di un ambiente già pesantemente compromesso, le condizioni di lavoro e la continuità del reddito di  ogni cittadino – con l’introduzione finalmente di forme di reddito universale di cittadinanza svincolate da qualsiasi “obbligo di prestazione” – debbono divenire variabili indipendenti per ogni politica economica, spostando il nucleo di ogni provvedimento dall’impresa e dal profitto al lavoratore e all’uomo).

Pensiamo sia necessario rivedere il peso di interi settori economici a vantaggio di altri, ed ostacolare le politiche che fin qui hanno avvantaggiato uno sviluppo che non ha niente di progressivo e che oggi mostra tutta la sua contraddittorietà. Non ci è estranea la consapevolezza che quello che può apparire a prima vista superfluo, rivesta tuttavia il carattere di essenzialità: ci riferiamo, solo per fare un esempio, al lavoro dei barbieri e delle parrucchiere; tutto quello che può servire per far sentire “a posto” gli uomini e le donne di questo mondo non merita né disprezzo né sarcasmo. Ma “grazie” a questa pandemia si ha il dovere di comprendere ad esempio che il sistema “moda”, per dirne uno, necessiti – senza lasciare nessun lavoratore solo e sprovvisto di mezzi – di un generale e radicale ripensamento.

E così il turismo di massa spesso dissennato e distruttore di delicati equilibri di ecosistema costruiti grazie al lavorio di secoli e secoli, sconvolti in pochi decenni di tirannia del selfie nel luogo esotico. Il turismo, che da elemento di valore è divenuto strumento per la trasfigurazione del nostro territorio, che ha certo costituito anche occasione di occupazione, spesso però precaria e sottopagata: tra il 2010 e il 2018 gli spostamenti internazionali sono aumentati da 800 milioni a 1,4 miliardi, accompagnando l’affermazione di una forma di consumismo istantaneo che ha richiesto ingenti investimenti infrastrutturali (anche a carico del pubblico) in aeroporti e compagnie aeree, hotel e ristoranti, parchi a tema ed “eventifici” che in molte occasioni hanno devastato le città rendendole invivibili e tristemente uguali. Per non parlare degli effetti devastanti che la mancata regolamentazione del settore dell’ospitalità diffusa ha avuto sulle politiche abitative, contribuendo a gentrificare interi quartieri, innalzare i prezzi e a rendere inaccessibile ai più fragili gran parte del patrimonio sfitto residenziale, che è finito nelle mani dei grandi interessi (basti pensare al fenomeno di AirBnB, che nel tempo ha finito per mascherare grandi proprietà immobiliari in capo a pochi soggetti). Questo settore oggi è al collasso: le compagnie aeree sono vicine al fallimento, gli hotel sono vuoti e la disoccupazione di massa nei settori del turismo è imminente. Occorrerà ridisegnare le politiche di questo settore, regolando il modo di utilizzare le risorse naturali, gli spazi pubblici urbani, il patrimonio residenziale, storico e paesaggistico. E riscoprire magari il vero viaggio, in primo luogo quello mentale, produttore di visioni di nuovi mondi.

Il mondo che verrà andrà declinato anche rispetto a quei settori che di sicuro andranno ridisegnati e che a nostro avviso restano, questi sì, prioritari ed essenziali. Solo per fare un elenco certo non esaustivo, sperando di non fare torto per nostra imperdonabile dimenticanza alle intelligenze e ai corpi impiegati in altri settori, che di sicuro arricchiscono la dimensione dell’umano:

  • beni alimentari: l’agricoltura (e la metalmeccanica connessa), la trasformazione ed il commercio dei prodotti alimentari;
  • medicinali, con al centro la ricerca e la chimica, e le industrie strettamente collegate;
  • edilizia: fortemente riorientata alla conservazione, manutenzione, recupero e rigenerazione del patrimonio esistente;
  • manutenzione e cura del territorio: in un paese dalla cronica fragilità idrogeologica e infrastrutturale, questo settore si rivela non solo strategico ma anche un’occasione di nuove opportunità di occupazione e sviluppo;
  • servizi di cura e assistenziali: dal settore sanitario a quello delle politiche sociali e di assistenza alla persona;
  • servizi “culturali” latamente intesi, con al centro lo sviluppo dell’uomo e le sue capacità critiche, di apprendimento e di elaborazione;
  • potenziamento delle scuole di ogni livello, delle università, di tutte le istituzioni culturali, con la dotazione delle risorse adeguate per le necessarie nuove assunzioni e la manutenzione e l’ammodernamento delle strutture

 

Ripensare tutto

Un terreno su cui occorrerà intervenire riguarda ad esempio il modello di sviluppo urbano. Le città da questo punto di vista sono un terreno dove l’emergenza rende evidente le contraddizioni del modello di sviluppo urbano che viene messo in pratica da oltre un trentennio, e dove la mercificazione e la massimizzazione del profitto hanno avuto la meglio sugli spazi urbani e sulle dinamiche che governano le trasformazioni della forma delle città. Sul fronte dello spazio pubblico a queste dinamiche si sono aggiunti anni di politiche securitarie che lo hanno progressivamente svuotato di significato. L’arena politica e sociale è ridotta all’osso, lo spazio pubblico marginale. In questo senso il modello di città pre-Covid non è molto diverso da quello che stiamo vivendo in queste settimane: la differenza è che oggi non ci sono notti bianche e movide a mascherare questo dato di fatto. Nel modello di sviluppo urbano affermatosi negli ultimi decenni i numerosi eventi, i centri commerciali aperti nei fine settimana, i dehors nelle piazze ci hanno distolto dal riconoscere un dato cruciale: l’unica identità che ci è concessa nello spazio urbano è quella del consumatore.

Per non parlare dell’approccio alla sicurezza urbana, che ha visto Sindaci di ogni colore politico firmare ordinanze “anti-degrado” o rimuovere arredo urbano per impedire ai senza dimora di riposarsi, o ancora disseminare le città di dispositivi di videosorveglianza e attivare il cosiddetto “controllo di vicinato” che rischia di incoraggiare pratiche delatorie che credevamo appartenessero ad altri regimi. Oggi, in piena emergenza da Covid-19 e in preda ad una collettiva caccia all’untore fomentata dai principali media, tranquilli cittadini postano sui loro social video per “denunciare” il vicino che è uscito, o la foto di una coppia che passeggia senza mantenere le distanze di sicurezza. Delazioni, insulti, invocazioni di repressione, esposizione pubblica (in tv, sui social) del “corpo” del reo. Non è un pericoloso e momentaneo impazzimento, né una deriva improvvisa: è il controllo di vicinato all’ennesima potenza. Occorrerà pensarci in futuro, quando in molti saranno tentati di celebrarne ancora una volta le virtù taumaturgiche nella lotta contro quell’insicurezza assunta solo nella sua dimensione di incolumità fisica senza interrogarne le ragioni sociali ed economiche che la rendono esistenziale.

Per questo, tra tutte le cose da rimettere in discussione nel “dopo” coronavirus ci sarà anche il modello di città che abbiamo in mente: il modo in cui spazi e funzioni si articolano e concatenano, il tipo di convivenza che vogliamo realizzare. Si tratta di interrogativi che chiamano in causa la politica e l’urbanistica, una disciplina che negli ultimi decenni è stata svilita nelle sue componenti essenziali, a partire dal valore del Piano come strumento per affermare l’interesse generale all’interno delle traiettorie di trasformazione territoriale.

Ma non si tratterà solo di ripensare le città dal punto di vista degli spazi collettivi e dell’interesse generale: occorrerà rimettere mano alla questione abitativa, che in questi giorni emerge in tutta la sua contraddittorietà nell’invito – a tratti snervante – a stare a casa: quale casa? “Casa è bene, fuori è male”: quest’associazione viene proposta con un meccanicismo talmente semplice da essere disarmante. Nel nostro paese però per molte persone la casa non rappresenta un rifugio sicuro: basti pensare alle donne vittime di violenza; alle moltissime persone senza dimora, o a quelle che sono costrette a vivere in pochissimi metri quadri, spesso in condizioni tutt’altro che confortevoli. Le politiche messe in atto fino a oggi sono andate nella direzione opposta: la casa fin qui non è stata un diritto di tutti, ma solo di chi se la può permettere.

In Italia la casa è un problema per molti – a causa della storica assenza di politiche adeguate – e la crisi che stiamo vivendo rischia di aggravare lo scenario in maniera drammatica. Per questo occorrerà rivedere le politiche abitative, introducendo elementi di innovazione e di regolazione in un settore dove da troppo tempo dominano rendita e speculazione, e dove gli interventi spesso si limitano a “dare un tetto” senza investire sufficientemente sull’esperienza abitativa più ampiamente intesa, né su processi di supporto, accompagnamento e progressivo recupero di autonomia da parte dei soggetti coinvolti e delle rispettive comunità abitative.

A questa riflessione sulla casa si lega quella relativa ai beni comuni, su cui occorre rilanciare il dibattito, non relegandolo a singole “buone pratiche” incapaci tra loro di fare sistema e di “farsi politica”. A tale proposito rileviamo l’utilizzo, in queste settimane, della norma che consente il ricorso alla requisizione di beni e di immobili per far fronte alle necessità di cura dei contagiati; per un periodo limitato (e senza nasconderci le difficoltà di rendere tale misura strutturale) si è trattato pur sempre di una scelta che ha contraddetto la mania di privatizzare, rafforzando invece l’intervento e l’interesse pubblico. Occorrerebbe tenerne conto anche ad emergenza sanitaria conclusa.

Ma la lezione del Covid-19 e le sue connessioni con modelli di sviluppo insostenibili, vanno oltre i temi più strettamente legati al territorio, e ci costringono a ripensare anche i modelli produttivi, la loro interazione con le questioni ambientali, urbane, e con quelle legate all’uso dell’innovazione tecnologica, e ancora ci suggeriscono una riflessione sulla necessità di ricostruire forme di mutualismo che sappiano andare oltre la retorica (ambivalente) della “comunità” .

Pensiamo ad esempio a come da più parti si sia rilevata – per effetto del lockdown – una significativa riduzione delle emissioni in atmosfera (anche in parte in quella pianura padana che rappresenta una delle aree più inquinate d’Europa e dove non a casa le patologie respiratorie hanno costituito un potente alleato del COVID-19) e un generale miglioramento dello stato di altre risorse naturali – corsi d’acqua in primis. Il livello di emissioni di carbonio dell’Europa in quarantena è probabilmente quello giusto se vogliamo rendere meno problematica la situazione climatica per le generazioni future. Rimane “solo” da capire come nel prossimo futuro si potrà avere questo livello di emissioni conciliando le esigenze produttive ed occupazionali con quelle ambientali e sociali, garantendo benessere e giustizia sociale.

Come si è visto bene in queste settimane di quarantena – e come molti hanno sottolineato – la tecnologia, soprattutto quella digitale, ha avuto un ruolo importante nel garantire un minimo di relazioni interpersonali. È innegabile. Eppure – lungi dal voler collocarsi tra quelli che Melograni definì “i nemici della modernità” – occorrerà guardarsi dalla retorica celebrativa delle taumaturgiche virtù della tecnologia, e ciò principalmente per tre ordini di motivi.

Innanzitutto perché l’uso necessitato della tecnologia e la dipendenza che ne scaturisce in termini relazionali – soprattutto in ambito lavorativo – rischiano di creare forme di dipendenza e alienazione più forti di quelle che già conosciamo: disturbi, forme acute di stress e ansia legati al suono o all’immagine di una notifica di questi strumenti che controlliamo compulsivamente e che di fatto finiscono per controllarci, dettando tempi e modi del nostro vivere quotidiano.

In secondo luogo perché senza un forte protagonismo della politica ispirato ai  principi di uguaglianza, questi strumenti rischiano ancora una volta di essere modellati sulle esigenze di un sistema che alimenta forti diseguaglianze. Non ci sfugge infatti l’enorme quantità di persone che per problemi economici possono sviluppare forme di analfabetismo digitale senza la possibilità di accedere a quegli strumenti: pensare che escludere queste persone dalla vita sociale e civile sia un costo sopportabile dell’evoluzione è profondamente in contrasto con gli ideali di giustizia, di equità e di emancipazione che hanno contraddistinto la nostra storia. Occorrerà attrezzarsi adeguatamente, sperimentando nuove e più semplificate forme di accesso (libero) a questi strumenti, o saremo costretti a subire ancora una volta un sistema egemonizzato da altri interessi e a farne le spese saranno i più deboli e le molte persone che vivono ai margini di questi processi.

Infine per una questione che chiama in causa la “smart city”, anch’essa variamente celebrata negli ultimi anni. Bisognerà infatti evitare che il ricorso alla tecnologia digitale non si traduca in un impoverimento della complessità urbana, in una sorta di rammollimento delle intelligenze individuali e collettive, né tantomeno dia vita ad una sorta di città sorvegliata alla stregua delle grandi metropoli (ce ne sono già diversi esempi, tra tutti Songdo, in Corea del Sud). Per questo crediamo che si dovrà compiere uno sforzo affinché quelle tecnologie, rese accessibili, e in un contesto di tutela della mole di dati e informazioni personali raccolti tramite i vari dispositivi, siano impiegate in chiave collaborativa, come strumenti in grado di arricchire la complessità delle città (presupposto essenziale alla loro sopravvivenza e al loro progresso) e soprattutto la partecipazione attiva alla costruzione di politiche urbane.

In queste settimane più che mai abbiamo imparato a proiettare su un dispositivo – la community del web 2.0 – tutta la nostra fame di umanità, di relazioni, di connessioni, di responsabilità verso sé stessi e gli altri. Si è rafforzato il discorso pubblico sulla “comunità” e sulle sue virtù. Eppure anche in questo caso sentiamo la necessità di una riflessione consapevole. La comunità può essere tutto e il contrario di tutto: è quella risorsa attivata per portare la spesa agli anziani e contemporaneamente è la realtà all’interno della quale possono svilupparsi dinamiche repressive nei confronti dei “devianti”, degli “untori”, degli “indisciplinati”. Alla comunità preferiamo la collettività collaborativa e mutualistica: abbiamo bisogno di imparare nuove grammatiche della vita collettiva.

In questo momento in cui i legami sono ridotti alla pura virtualità comunicativa, ci sembra fondamentale pensare i limiti di questa astrazione. Pensare a ciò che resta e residua oltre le piattaforme di videoconference e oltre ogni social network. Pensare a tutto ciò che costituisce in fondo la singolarità propria dei nostri corpi e delle loro esperienze.

 

Pandemìa – femminile singola(re)

 Un tema piuttosto sottovalutato dal discorso pubblico e anche dal decisore politico (pochissime sono le donne coinvolte nelle task force e nei luoghi chiamati a governare l’emergenza) riguarda le conseguenze che la pandemia provocherà a livello di genere. Non ci riferiamo solo alla necessaria attenzione nei confronti delle molte lavoratrici attive nel settore sanitario (spesso il personale infermieristico è rappresentato in gran parte da donne) o in quello domestico-assistenziale (colf, “badanti”, assistenti a domicilio spesso chiamate a lavorare in contesti non del tutto regolari – si parla di circa 2 milioni di persone in Italia), ma anche a tutte le donne che in queste settimane sono costrette a casa e sulle quali questa emergenza rischia di incidere ancor più negativamente sulla propria condizione personale e lavorativa.

L’epidemia infatti ha spezzato gli equilibri faticosamente raggiunti in molte famiglie italiane, con il risultato che tante donne si sono trovate a lavorare da casa, dovendosi occupare anche dell’istruzione dei figli, della loro salute, dei pasti e delle altre incombenze domestiche. Pensiamo ad esempio al ricorso allo smartworking o “lavoro agile”: le imprese che vi ricorrono appartengono prevalentemente ai settori dei servizi (fra cui i servizi pubblici, incluso l’insegnamento), i quali impiegano soprattutto le donne. Questo fenomeno rischia dunque di accentuare ulteriormente le diseguaglianze di genere: infatti, se da un lato il lavoro da casa può offrire l’opportunità (per tutti) di conciliare al meglio il lavoro produttivo (pagato) e il lavoro riproduttivo (non pagato), dall’altro lato vi è il rischio che il tempo complessivo di lavoro per le donne si allunghi considerevolmente e si faccia più gravoso.

Vi è infatti l’intrecciarsi di due ambiti di vita in un unico luogo fisico senza soluzione  di continuità, in cui si ammassa il carico di lavoro domestico e di cura troppo spesso ancora affidato alle donne. Basti pensare che già prima dell’epidemia in tutta Europa le donne in media trascorrevano tredici ore alla settimana in più degli uomini a occuparsi della casa e della famiglia. Pensiamo poi al lavoro riproduttivo non pagato e il modo in cui questo interagisce con gli effetti del Covid19: la chiusura delle scuole da un lato, anziani o familiari malati lasciati spesso senza assistenza domiciliare: in un contesto dominato da un modello di welfare familistico, ciò si traduce in un aumento del carico di lavoro di cura che grava prevalentemente sulle spalle delle donne, con i pesanti risvolti psicologici che questo può comportare. Per non parlare della questione legata alla violenza di genere. La casa infatti per molte donne non rappresenta affatto un luogo sicuro: il numero totale di casi di violenza domestica è aumentato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (del resto l’85% dei femminicidi avviene in famiglia e gran parte di questi tra le mura domestiche).

Più in generale, le conseguenze socio-economiche del diffondersi del Covid19 hanno un impatto sulle donne più pesante che sugli uomini a causa delle differenze e disuguaglianze strutturali che caratterizzano il mercato del lavoro: le donne percepiscono mediamente una retribuzione più bassa di quella dei loro colleghi uomini e vengono assunte più frequentemente degli uomini con forme contrattuali atipiche e precarie. Pensiamo anche che secondo le analisi fornite dal Centro Studi dei Consulenti del lavoro, su 4,4 milioni di lavoratori che sono rientrati in concomitanza con l’inizio della cosiddetta “Fase 2”, ben 3,3 milioni sono uomini – pari al 74,8% – solo 1,1 milioni donne – il restante 25,2%.

Per tutte queste ragioni, se non si interverrà tempestivamente con misure adeguate, dopo aver subito un carico maggiore di esposizione durante le settimane del confinamento domiciliare forzato, le donne saranno le prime a subire i contraccolpi della pandemia nel mercato del lavoro perché più facilmente licenziabili e dunque maggiormente ricattabili.

 

La paura (ed il disprezzo) delle masse.

Mutuando le argomentazioni contenute in un vecchio lavoro di Etienne Balibar cui ci riconosciamo debitori, intendiamo la “paura delle masse” nel doppio senso del genitivo: la paura che incutono le masse in chi non si ritiene loro membro; la paura che le masse provano nei confronti del mondo spietato ed incomprensibile, il cui ultimo esemplare epifenomeno è il virus. Abbiamo registrato anche in questo momento storico il classico disprezzo delle élite nei confronti del “popolo” declinato come plebaglia. Un popolo anarchico, insofferente, si direbbe geneticamente refrattario alle misure adottate per il contenimento del virus che con i propri comportamenti indisciplinati ha provocato la sua diffusione. Una falsità evidente, tesa a coprire le responsabilità delle élite in una gestione quanto meno incauta se non altro nelle fase iniziali – ma decisive – della pandemia: i casi di Alzano Lombardo e del Pio Albergo Trivulzio, il personale ospedaliero ed i medici di medicina generale lasciati soli senza i dispositivi di protezione individuale, le fabbriche aperte in nome delle commesse da evadere, un lungo elenco di errori che hanno causato migliaia di morti.

I dati raccontano di un paese reale al contrario scrupoloso nel rispetto delle misure governative (ai vari livelli di governo possibili) assunte – queste sì – spesso in colpevole ritardo. Il Ministero dell’Interno ha comunicato che dall’11 marzo al 4 aprile le forze di polizia hanno controllato 4.859.687 persone e 2.127.419 tra esercizi ed attività commerciali. Complessivamente le contestazioni ai cittadini per inosservanza dei divieti anti-Covid sono state 11.738: appena il 2,38 per cento. Una percentuale risicatissima in cui rientrano anche la signora che si è allontanata “troppo” dai confini della propria abitazione per le esigenze fisiologiche del suo cane raggiungendo indebitamente una “sugheraia” o – episodi “denunciati” tutti dalla stampa – il pensionato scovato con un drone a pescare in completa solitudine sulle rive dell’Arno, raggiunto da una pattuglia di carabinieri e multato per 400 euro. Senza contare, poi, elaborazioni scientificamente più raffinate come quelle fornite da  Google sull’occupazione degli spazi pubblici prima e dopo lo scoppio dell’epidemia, da cui discende che alcuni paesi hanno reagito con più rapidità rispetto ad altri. Tra i Paesi “virtuosi” troviamo l’Italia al primo posto e la Spagna al secondo.

E allora se il popolo rispetta le misure di contenimento, se gli italiani restano disciplinatamente nelle loro case, ed indossano mascherine e guanti, e mantengono le distanze bandendo ogni forma di contatto, perché il virus – ci chiediamo – non scompare ed ogni giorno – da giorni – abbiamo nuovi contagiati? La risposta ce la  dà il Presidente della Regione Veneto Zaia, esemplare esponente delle nostre élite, l’undici aprile durante una delle tante conferenze stampa cui ci è toccato assistere: “Domani presenterò la nuova ordinanza che dovrà tenere conto del fatto che con il nuovo Dpcm di fatto il lockdown non c’è più; già oggi il 60% delle aziende è aperta e lo si vede dal traffico che è aumentato, a causa del cosiddetto “silenzio-assenso” cosicché molte aziende in deroga hanno già riaperto“. Il 60% delle aziende venete sempre aperte, ce lo dice con una certa serenità il Presidente della Regione, in  pieno week-end pasquale, mentre poliziotti, carabinieri e vigili urbani erano sguinzagliati per stanare l’inesistente popolo della gitarella fuori porta: strade deserte con gli uomini e le donne in divisa sostanzialmente inoperosi.

Ed allora, sollecitati sempre da Zaia, andiamo subito a compulsare i dati forniti dal Ministero della Salute, per scoprire che la regione Veneto – dati al 1° maggio 2020 – è quarta sia per numero di casi totali (18.098) che per numero di morti (1479). E poi, desiderosi di avvicinarci alle cause del perdurare dei contagi, indaghiamo anche la situazione nell’epicentro della pandemia, la bergamasca, per apprendere dalle denunce sindacali che mentre in Italia ci si interrogava su come passare alla “Fase 2” in quelle zone squassate dal virus già il 60% – forse addirittura il 70% – delle aziende bergamasche del comparto manifatturiero non avevano mai sospeso, oppure avevano ripreso la loro attività.

Forse quei numeri “sorprendenti”, quelle aziende sempre aperte in nome del profitto nelle regioni con percentuali di contagiati elevatissime, andrebbero interrogati più e meglio di come le nostre élite abbiano sin qui fatto. Forse i nostri sindaci, i nostri presidenti di regione, i nostri parlamentari, il nostro presidente della protezione civile e perfino i nostri epidemiologi più à la page dovrebbero tenere conto, per “scoprire” le cause del mancato contenimento dei contagi, oltre ai pensionati in fila davanti agli ipermercati anche del numero di aziende che non si sono mai fermate: secondo l’Istat – che ha mappato le attività – il 55,7% dei lavoratori ha proseguito a lavorare durante il lockdown, mettendo a rischio contagio loro stessi e le proprie famiglie, specie in un tessuto produttivo come il nostro fatto prevalentemente di piccole e piccolissime imprese ove il rispetto delle misure di sicurezza (sanificazione delle sedi compresa) rischia in molti casi di essere pura fantascienza.

 

Virus. le parole per dirlo.

E dunque le parole, simbolo per eccellenza, che traggono linfa dall’immaginario e poi lo modellano, lo mettono in forma e, retroagendo, lo producono. Le parole, il virus universale, che hanno la possibilità di propagare contenuti infinitamente diversi l’uno dall’altro e produrre società radicalmente alternative. Un’analisi del virus pandemico e dei suoi effetti non può evitare quella sulle parole usate e prodotte per raccontarselo. A cominciare da quell’“andrà tutto bene”, lanciato e rilanciato, dai balconi e nelle piazze virtuali del web, spesso accompagnato da arcobaleni festanti disegnati dai bambini. Uno dei molteplici modi in cui l’umanità impaurita da un nemico invisibile ha tentato di esorcizzare il terrore, autoconvincendosi della sopravvivenza, invocandola, gridando al mondo la propria volontà di resistenza. Un’alchimia, l’invocazione di divinità benevole contro un male oscuro, una formula tra le più innocenti tra quelle che abbiamo sentito in questi giorni, capace se si vuole di motivare sorrisi, e la resistenza anche delle persone toccate dal virus, in prima persona o attraverso i loro familiari. Una sorta di carezza che tuttavia si è infranta su un muro – al 1° maggio – di più di 28.000 morti che fanno dell’Italia, in rapporto alla popolazione, la prima nel mondo per vittime da Covid-19.

Per proseguire con le varie metafore belliche, queste meno innocenti, riassunte dalla “guerra” contro il virus. Guerra che, con tutta evidenza, ha prodotto migliaia di morti innocenti. Ma non per colpa di un “nemico”. Questo virus e le altre terribili malattie che tanto dolore producono all’umanità anche in tempi non pandemici, mancano della caratteristica fondamentale del nemico: la consapevolezza di sé, la volontà di muovere guerra. Il virus non è un nemico, il virus è un virus (una rosa è una rosa..) che tende, per sua intima natura, a sopravvivere propagandosi. Non vi è piano, non vi è strategia, non vi è volontà: solo esistenza in sé conchiusa. E così i malati non sono dei guerrieri e i morti non sono dei caduti al fronte, ma spesso povera gente anziana abbandonata nelle proprie abitazioni o falcidiata nelle RSA grazie anche alle leggerezze e colpevoli inadempienze di altre persone chiamate a decidere del loro destino. Forse gli infermieri ed i medici, il personale sanitario che ha anche pagato un pesante tributo in termini di malati e di morti, sono gli unici eroi di questa tragedia senza trama; dopo anni e anni di tagli alla sanità in nome dei parametri economici da rispettare si sono trovati spesso soli e sprovvisti di mezzi adeguati per reagire in modo adeguato alla pandemia.

Non è una guerra, è un virus che va fermato ricercandone le cause sistemiche, operando in modo costante per rimuoverle modificando alla radice il sistema stesso. Donne e uomini che vivano rispettando l’ambiente che li nutre, come una giovane donna svedese, Greta Thunberg ed il movimento da lei sollecitato ci stanno dicendo, spesso dileggiati, da mesi.

Meritano un approfondimento anche il “distanziamento fisico” (preferiamo chiamarlo così anziché sociale) e le forme di “contenimento”. Sono certo termini abituali nel linguaggio tecnico-scientifico che tuttavia vanno maneggiati con cura perché possono produrre effetti perversi. Pensiamo a tutti quei lavori, spesso misconosciuti anche in tempi normali, legati all’assistenza sociale. Il lavoro nei centri per diversamente abili, nelle case di riposo, nelle varie Rsa, ma pensiamo anche all’opera di tanti insegnanti soprattutto negli asili nido e dell’infanzia. Pensiamo quanto siano importanti, in questi ambiti, il contatto e la vicinanza, spirituale e fisica. E quel “contenimento” rammemora le tante barriere costruite nel mondo per bloccare migliaia di persone alla ricerca di migliori condizioni di vita rispetto a quelle esistenti nei luoghi natii.

Si è letto anche della necessità di “stanare i casi sommersi”, e – in occasione del probabile lancio della app “Immuni” che sta facendo molto discutere sia riguardo alla tutela della privacy che alla sua efficacia, addirittura di “caccia ai contagiati”. Formule più neutre come “scoprire in tempo i casi asintomatici” vengono trascurate a favore di slogan mutuati dall’immaginario bellico.

È un tipico esempio di come un certo fascismo del linguaggio possa produrre immaginari paranoici. Si “stanano” i pericolosi criminali, si è “stanato” – è l’immagine che alle prime ci sovviene – un dittatore come Saddam Hussein, nascosto in una buca; si cacciano prede feroci. Nel nostro caso non vi è, preme sottolinearlo, né da cacciare né da stanare alcuno: solo l’esigenza di organizzare un sistema di esami testati ed efficaci per aiutare tutti i cittadini a rilevare o meno la presenza di anticorpi legati al virus ed operare per trovare un mix di cure efficaci nell’attesa di un vaccino per il Covid 19. Il cittadino asintomatico non è un colpevole, né un untore, solo una persona inconsapevole del virus che lo ha aggredito.

“Convivere con il virus”: autorevoli esperti ci dicono che una volta passato il picco sarà necessario “convivere” con questo virus. Dovremo analizzare con dovizia come ci proporranno di strutturare questa convivenza, cercando di avere al riguardo voce in capitolo. Riteniamo che la riflessione sulle forme di convivenza dovrà coinvolgere tutti i saperi. Oltre ai virologi, riteniamo fondamentali gli psicologi, ancor più degli economisti. Rivestiranno un ruolo fondamentale dopo mesi che vediamo negli altri quasi esclusivamente un veicolo di contagio. Ci sarà bisogno di molta cura per la nostra psiche: abituarsi all’altro come nemico per mesi e mesi non può non aver prodotto sconvolgimenti che necessiteranno di lenimento. Sono mesi che non ci abbracciamo, che non ci stringiamo le mani, che osserviamo con sospetto dai terrazzi le persone che passeggiano lungo i marciapiedi. Una sessuologa ci ha pure spiegato come dobbiamo fare l’amore: genitali a contatto ed in penetrazione, senza baci per evitare pericolosi spargimenti di saliva.

È vita vera questa nuda vita?

 

Come prima, meglio di prima.

 Una volta che grazie alla scienza questo virus sarà definitivamente sconfitto (perché solo un leviatano impazzito può pensare che si possa immunizzare l’intera umanità confinandola in casa per un periodo di tempo illimitato), una scienza quindi che torni alle proprie radici, al servizio della vita, con la predisposizione di un vaccino o – come nel caso dell’Hiv – con la produzione e successiva somministrazione di nuovi farmaci che consentiranno la limitazione degli effetti più letali del morbo, tutte quelle attività che contribuiscono alla felicità degli uomini e delle donne di questo pianeta debbono ripartire come prima, più di prima, meglio di prima. Ci riferiamo a tutto quello che ricade nella gioiosa sfera della convivialità, in cui non vi è alcuna “colpa” e che non potrà produrre – in condizioni normali – alcuna punizione: abbracciarsi, baciarsi, darsi la mano, toccarsi, fare l’amore con chi più ci piace e come ci piace, contaminarsi nel senso più fecondo del termine, eliminando ogni forma di feroce distanziamento. Uscire con le amiche e con gli amici – uscendo dalla logica dei “congiunti” – affollare i luoghi di ritrovo, le piazze, le vie di ogni paese (magari depurandole dalle auto, dai Suv inquinanti), discutere e dibattere in luoghi felicemente affollati e promiscui.

Il virus non è un flagello pensato (e da chi, poi?) per punire le colpe di un’umanità ribelle. Il senso del virus è il suo essere privo di senso: è nato, vive, tenta di riprodursi. È l’animale uomo l’unico che può attribuire un senso a ciò che di per sé  ne è privo. Il nostro contributo si situa proprio su questo terreno, quando scriviamo di voler sfruttare questo agente patogeno più di quanto lui voglia sfruttare noi.

 

3 Commenti

  1. L’analisi è condivisibile al 100%. Mancano purtroppo quelli che burocraticamente si chiamerebbero i decreti attuativi.
    1. Quale dovrebbe essere il soggetto che di questa analisi si fa protagonista? Una community del web? I vecchi partiti redenti?
    2. Quale il luogo delle sue azioni in un tempo di distanziamento fisico probabilmente irreversibile? I circoli Arci? Il web?
    3. Quali le sue azioni? Scioperi? Propaganda informatica? Cortei? Scioperi bianchi? Disobbedienza civile? Sabotaggio?
    Come si fa notare nell’analisi, i soldi c’erano, visto che ora li stanno tirando fuori. Purtroppo questo dimostra che il Capitalismo, come il drago dell’Hobbit, sta acqquattato su una enorme montagna di denaro, con la quale ci ha comprato tutti e con la quale è pronto a ricomprarci. I “coraggio, ce la faremo” si sprecano e tutti non vedono l’ora, come la gallina di Leopardi, a tornare in sulla via a ripetere il suo verso.
    Caro collettivo senza nome, temo che non siamo ancora a una crisi di sistema. Il vecchio Capitalismo ne ha viste ben altre. Per esempio la Seconda Guerra mondiale, con i suoi 50.000.000 di morti, su una popolazione molto minore dell’attuale.
    Se non sbaglio fu quella guerra che pose fine alla crisi del 29.
    Concludendo: sono dalla vostra parte. È più di mezzo secolo che stodalla parte di chi perde. Ma perdere non è un buon motivo per non stare dalla parte giusta.

  2. Siete amabili, per lo sforzo intellettuale, per amor d’utopia, giovani audaci, la natura è forte la madre non fa sconti, il mio sentire è il vostro; insieme,
    operosi di buona volontà,destinati ad amare la vita facciamo del nostro meglio per noi stessi e per gli altri

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